Un Occhio sul Mondo - 25 gennaio 2025, 09:00

'Accordo di Gaza, difficile essere ottimisti'

Il punto di vista di Marcello Bellacicco

'Accordo di Gaza, difficile essere ottimisti'

Poche sere fa, in prima serata su RAI 1, alla domanda di Bruno Vespa, peraltro posta con una certa timidezza, se non fosse stata eccessiva la reazione israeliana che si è abbattuta in questi mesi su Gaza, viste le decine di migliaia di morti tra i civili, compresi i bambini, l'Ambasciatore israeliano a Roma ha risposto con un'incredibile e sicura immediatezza “not at all – per niente”, argomentando poi, con una scontatissima tiritera, che in guerra i caduti civili ci sono sempre stati.

In un certo senso è vero che, nella storia, le popolazioni sono state tra le principali vittime dei conflitti, ma c'è da chiedersi se la risposta di Tel Aviv all'attacco terroristico del 7 ottobre 2023 sia stata veramente una guerra che, normalmente, presuppone almeno due contendenti che si fronteggiano. Una risposta la si può dare sotto l'aspetto strettamente giuridico del Diritto Internazionale, che attribuisce al termine “guerra” un significato ben preciso, con caratteristiche e procedure di dichiarazione e di condotta ben precise che, comunque, prevedono ben precise forme di tutela della popolazione.

In tale contesto, si può affermare che le operazioni condotte dalle IDF-Israel Defence Forces non siano definibili come guerra, ma piuttosto come una ritorsione armata contro un Gruppo terroristico, che ha compiuto un'azione terroristica, causando la morte di circa 1.200 persone ed il rapimento di 250. Perdite che sono state coralmente ricordate, da Israele e dal mondo occidentale, pressoché in ogni momento di questo lungo anno e mezzo, ma soprattutto puntualmente in occasione dei “misfatti” delle Forze israeliane nella Striscia di Gaza.

Questa situazione, piuttosto che in precedenti conflitti, anche medio-orientali, potrebbe trovare un precedente nell'attacco terroristico agli Stati Uniti del 2002 (Torri Gemelle, Pentagono e aereo precipitato), che causò la morte di 2.977 persone ed il ferimento di oltre 6.000. Anche in questo caso ci fu una reazione, che fu quella degli USA e di gran parte della Comunità Internazionale, con l'operazione in Afghanistan contro il regime talebano, che aveva appoggiato Osama Bin Laden nell'organizzazione. La risposta armata fu autorizzata e legittimata da una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU (seguita poi da altre), ma l'intervento non fu condotto solo sul piano militare per la stabilizzazione del Paese, perché fu impiegata anche una componente civile per la sua ricostruzione.

La reazione per abbattere il regime talebano impose fasi di combattimento, talvolta cruento, che comportarono anche casi di coinvolgimento della popolazione. Si trattava dei famigerati “effetti collaterali”, termine tecnico intriso di cinismo, che indica la perdita di civili durante operazioni militari. Un vero e proprio incubo per i Comandanti ad ogni livello, sia per una consapevolezza intrinseca di carattere morale sia per l'estrema sensibilità dell'opinione pubblica verso questa tipologia di incidenti, che determinava altrettanta attenzione delle parti politiche e mediatiche.

Un simile approccio può e deve essere considerato proprio e consono, per non dire obbligatorio, per una Comunità Internazionale che sia formata da Nazioni che vogliano realmente contribuire alla tutela della giustizia nel mondo, nel pieno rispetto del valore della vita e dei Diritti umani. E' il cosiddetto patrimonio morale delle Democrazie occidentali, in nome del quale, spesso, si sentono autorizzate ad ergersi ad inflessibili giudici dei regimi totalitari, soprattutto se si macchiano di violazioni del Diritto umanitario e di quello internazionale.

Pertanto, se si considera tutto questo come giusto e corretto e, soprattutto, rispondente alla realtà, di fronte a quanto accaduto in questi mesi nella Striscia di Gaza (e non solo) i conti della ostentata supremazia morale occidentale non tornano, perchè la remissività giornalistica con cui Bruno Vespa si è posto di fronte a quel cinico “Not at all” è l'esatto emblema del remissivo approccio dei governi occidentali, di fronte alle decine di migliaia di morti civili palestinesi.

Un atteggiamento controproducente che neanche i mandati di arresto per il Premier israeliano Netanyahu ed il suo ex Ministro della Difesa Gallant, emessi dalla Corte penale Internazionale, per crimini di guerra e crimini contro l'umanità, sono riusciti ad intaccare.

Uno sfondo di immunità per Tel Aviv che non facilita di certo la tenuta dell'accordo di cessate il fuoco, raggiunto nei giorni scorsi con Hamas, perché permette a Israele di sentirsi nella posizione di poter decidere incondizionatamente qualsiasi cosa, compreso il mancato rispetto di quanto concordato con la controparte.

L'accordo siglato prevede tre fasi, di cui però solo la prima, che dovrebbe aver durata di 42 giorni, è stata definita nei dettagli, mentre quelli delle altre due devono essere ancora trattati. Peraltro, si sono già registrate le prime reciproche accuse di violazioni, che rendono difficile l'implementazione di quanto concordato, soprattutto in tema di rilascio degli ostaggi, aspetto che sta particolarmente a cuore al Premier israeliano, che ha già subito l'abbandono del Governo da parte dei 3 Ministri del partito nazionalista religioso “Potere ebraico”, per protesta contro la firma dell'accordo con Hamas.

Pertanto, al momento, sarebbe già un successo il rispetto, da entrambe le parti, di quanto previsto dalla prima fase, ma molti analisti esprimono il loro scetticismo, in considerazione anche del fatto che quanto sta succedendo intorno a Gaza, potrebbe influenzare fortemente e negativamente gli accordi tra Tel Aviv e Hamas.

Infatti, Hezbollah sta accusando Israele di aver compiuto più di 1.300 violazioni in Libano, da quando è stata firmato il cessate il fuoco il 27 novembre scorso, Un accordo che, peraltro, sarebbe scaduto il 26 gennaio, ma che gli USA hanno affermato debba ritenersi prorogato sino al 14 febbraio. Nel frattempo, Israele ha dichiarato di aver deciso, unilateralmente, di ritardare di 30 giorni il ritiro delle loro truppe dal sud del Libano.

Nel Golan, Tel Aviv sta proseguendo imperterrito nell'attuazione del piano, approvato all'unanimità lo scorso 15 dicembre, per raddoppiare la presenza dei propri coloni nella zona siriana dell'altopiano, dopo che le sue unità hanno occupato militarmente la “zona cuscinetto” tra Siria e Israele, che era sotto monitoraggio delle Nazioni Unite. Quest'area, oggetto del “ripopolamento”, era stata conquistata dagli Israeliani nella guerra del 1967 e annessa nel 1981, con decisione unilaterale (tanto per cambiare) riconosciuta solo dagli USA nel 2019. Per il momento, il nuovo leader siriano al-Jolani, autoproclamatosi moderato, non ha evidenziato reazioni, limitandosi ad affermare di non volere una guerra con Israele, ma potrebbe ricordarsi (o potrebbero ricordarglielo i tagliagole che lo hanno portato al potere) di essere stato uno dei combattenti jihadisti dell'ISIS, notoriamente allergici alla Stella di David.

In Cisgiordania, Tel Aviv sta proseguendo con l'operazione “Muro di ferro”, attaccando la città di Jenin, anche qui con morti e feriti tra la popolazione. Netanyahu ha dichiarato che questa offensiva è finalizzata a “sradicare il terrorismo”, ma agli occhi dei più sembra essere un'azione confezionata ad hoc per risanare lo strappo politico interno con il partito “Potere ebraico” (uscito dal governo), inducendolo a digerire la tregua con Hamas, mediante il coronamento di uno dei suoi sogni, che è l'annessione della Cisgiordania.

In questa operazione, che non sembra avere un termine se non al conseguimento del totale controllo dell'area, sono impegnati anche i coloni (quelli Israeliani non lavorano di zappa), i quali, giusto qualche giorno fa, hanno assaltato un paio di villaggi, causando il ferimento di più di una ventina di civili palestinesi.

D'altra parte, la foga dei coloni ha trovato ulteriore convinzione dalla notizia che il neo Presidente Trump, appena insediato ha firmato, con effetto immediato, l'annullamento delle sanzioni contro i coloni coinvolti in azioni violente, decise dal predecessore Biden, proprio per limitare le violenze perpetrate da questi “strani contadini”.

Se a questo si aggiunge che sempre il Tycoon imporrà sanzioni economiche contro la Corte Penale Internazionale, rea delle condanne dei due politici israeliani e pensa di deportare nei Paesi arabi i Palestinesi di Gaza in modo da ricostruirla (chissà quando e come), il quadro in cui dovrebbe sopravvivere il cessate il fuoco con Hamas appare sempre più cupo.

Probabilmente, tirerà avanti sino a quando il Gruppo islamico non riuscirà a riprendere un minimo di capacità operativa, a meno che Tel Aviv non decida di riprendere l'attacco a Gaza, tenendo fede a quanto disse Netanyahu “Israele si fermerà solo a lavoro finito”, senza precisare però, quale sia l'esatto e vero progetto che intende realizzare.

Marcello Bellacicco

TI RICORDI COSA È SUCCESSO L’ANNO SCORSO A GENNAIO?
Ascolta il podcast con le notizie da non dimenticare

Ascolta "Un anno di notizie da non dimenticare 2024" su Spreaker.
SU