Cronaca - 20 luglio 2024, 07:19

Trent'anni anni senza un colpevole: chi uccise il primario di Cuneo che amava le armi?

La mattina del 21 luglio 1994 il dottor Renato Motta veniva assassinato con violenti colpi alla testa nel suo studio di Cuneo. Fu arrestato il compagno della figlia minore che poi però venne scagionato dalla prova del Dna e qualche anno dopo si tolse la vita. Il delitto restò impunito

Il palazzo dove avvenne l'omicidio del primario Renato Motta

Il palazzo dove avvenne l'omicidio del primario Renato Motta

Trent’anni. Tanti ne sono passati da quel 21 luglio 1994, quando l’ex primario di Radiologia dell’ospedale Santa Croce Renato Motta fu trovato morto dalla compagna nel suo studio di via Statuto 4, a Cuneo. Massacrato da violentissimi colpi alla testa, con un’arma mai ritrovata. Accanto al corpo un mazzo di chiavi dell’appartamento ed i suoi occhiali. Nessun segno di effrazione sulla porta: o l’assassino aspettava il dottor Motta all’interno, oppure era entrato insieme con lui.

Il delitto suscitò l’immediato interesse dell’opinione pubblica e della stampa cuneese per molto tempo, ma nonostante una serie di colpi di scena alla fine resterà impunito. Uno dei grandi misteri senza fine nella storia criminale di Cuneo.

LA VITTIMA. Chi era il dottor Motta? Figlio dell'ex segretario comunale di Cuneo, all’epoca dei fatti aveva 66 anni. Sposato e divorziato, viveva con la nuova compagna, Elena Vinay, ed era padre di due figlie: Elena, 33 anni, e Federica, due più giovane. Sul piano professionale una carriera prestigiosa: assunto nel 1969, in 21 anni di attività contribuì in modo determinante allo sviluppo del reparto di Radiologia del Santa Croce. Anni in cui all’ospedale di Cuneo arrivò la prima “Tac”. Da quattro era in pensione dedicava il proprio tempo alla famiglia, ma anche a se stesso: sci ed alpinismo le grandi passioni.

IL DELITTO. Cosa successe quella mattinata di luglio resta un mistero, unici punti certi gli ultimi istanti di vita della vittima. Nonostante sia estate e faccia un gran caldo la figlia maggiore Elena ha preso l’influenza, così il dottor Motta dice alla compagna di voler andare in farmacia per comprarle dei farmaci. E lo fa: alle 9,39 esce dalla farmacia del Sacro Cuore, in corso Nizza, come evidenzia lo scontrino emesso. Poi, però, inspiegabilmente non si reca a casa della figlia malata, ma decide di andare nello studio di via Statuto. Il primo mistero: perché Motta non ha portato subito le medicine alla figlia malata? Ha forse incontrato qualcuno sotto i portici che lo ha convinto a variare il percorso? Oppure l’appuntamento in via Statuto era prefissato? In fondo Elena aveva una semplice influenza. Non si saprà mai.

Quel che è noto, invece, è che alle 11,30 l’altra figlia Federica va a sua volta in via Statuto perché ha un appuntamento con il padre. Sembra che i due debbano discutere alcuni particolari del trasloco che la donna farà di lì a poco proprio nell’alloggio dove il medico sarà ucciso. Suona il campanello ma non ottiene risposta, così se ne va lasciando un bigliettino: "Ti ho aspettato, ci vediamo più tardi". Passano un paio di ore e verso mezzogiorno Elena, che stava aspettando la consegna dei farmaci, non vedendo arrivare il genitore chiama la compagna chiedendo se fosse a casa. La donna risponde di no e si allarma: va a cercarlo in via Statuto e fa la tragica scoperta: nell’ingresso chiavi ed occhiali a terra, mentre poco più in là, riverso nel corridoio, il corpo massacrato dell’uomo.

LE INDAGINI. Scatta l’allarme e partono le indagini. Polizia e carabinieri si muovono a 360°. L’ipotesi di una rapina finita male, seppure non scartata sembra improbabile: la vittima non è uscita di casa con una somma di denaro importante e non ha effettuato alcun prelievo. Topi d’appartamento sorpresi a rubare? Dall’alloggio non manca nulla e Motta viene trovato con borsello e portafoglio. E poi c’è la posizione della vittima: se il rapinatore avesse colpito il medico in risposta ad una sua reazione si sarebbe preoccupato di scappare, non di trascinare il corpo al fondo del corridoio. L’arma del delitto non c'è, l’assassino l'ha portata via.

LA PISTA FAMILIARE. La cosa prioritaria per gli inquirenti è scoprire chi e perché nutrisse tanto rancore verso il dotto Motta per assassinarlo in modo così violento. Le indagini, come spesso succede quando la vittima ha una vita apparentemente “trasparente”, puntano sulla cerchia familiare. Chi indaga sembra convinto che l'ex primario conoscesse bene il suo assassino: trovato forse per caso sotto i portici gli ha fatto strada fino in via Statuto, dove una volta entrati lo ha aggredito e massacrato.

L’ARRESTO. Ventidue giorni dopo il delitto, il 12 agosto 1994 il caso sembra risolto. Viene arrestato Mauro Ansaldi, 33 anni, rappresentante di articoli sportivi di Bergeggi, nel savonese. Che rapporti ha il fermato con la famiglia Motta? Sposato e padre di un bimbo, il giovane conosce la figlia minore della vittima Federica: i due negli ultimi tempi hanno stretto i rapporti. Da subito Ansaldi non nasconde la profondità del rapporto con Federica, pur essendo lui ancora sposato. Forse il dottor Motta era contrario al loro rapporto tanto da diventare “scomodo”? Che ci fosse qualche contrasto tra padre e figlia è la stessa Federica a dirlo, ma come movente sembra deboluccio. Tant'è, il mostro viene sbattuto in prima pagina.

La famiglia è frastornata: "Siamo confusi. La notizia del fermo ha aggiunto stupore al nostro stato d'animo già straziato dal dolore per la perdita. L'unico nostro desiderio è venire a capo di questa vicenda". Gli inquirenti ascoltano Ansaldi, che in un primo tempo nega di essere stato a Cuneo la mattina del 21 luglio: lo ammetterà qualche settimana più tardi durante un confronto in questura, dove si reca spontaneamente. Perché avesse mentito durante i primi interrogatori resta un mistero.

IL POSSIBILE MOVENTE: Che ragione avrebbe avuto Ansaldi per uccidere il genitore della donna che amava? L’indagato ricostruisce il suo spostamento a Cuneo la mattina del delitto: "Sono arrivato in centro alle 8,30. Volevo incontrare Federica per una visita lampo ma purtroppo non l'ho trovata, così sono tornato a Savona dove alle 11,15 avevo appuntamento con un legale". Da parte sua Federica è convinta della sincerità del compagno: "Non credo a questa ricostruzione – racconta agli amici -. E' una cosa assurda. Mio padre non conosceva Marco, non c'è alcun movente credibile".

Intanto l’indagato resta in carcere, proclamando la sua innocenza: "Un errore, ma mi fido dei giudici. Ho chiesto di rimanere in cella di isolamento per non entrare nel drammatico mondo del carcere: sono convinto che tornerò libero al più presto. E' un momento drammatico per me: sono consapevole che l'accusa a mio carico è gravissima, ma i fatti dimostreranno che non c'entro nulla".

GLI INDIZI. Tra gli indizi in mano agli inquirenti la tessera Viacard dell'agente di commercio, che registra i suoi passaggi ai caselli di Savona e Mondovì nelle ore antecedenti il delitto. Un indizio, però, che se rivoltato potrebbe costituire un elemento di difesa: se Ansaldi avesse voluto nascondere le tracce della permanenza a Cuneo, perché pagare il pedaggio con la tessera Viacard? Le indagini sono ad un bivio: il tribunale deve decidere circa la richiesta di scarcerazione presentata dal legale di Ansaldi, Flavio Battisti. Che arriva il 27 agosto: deve restare in carcere perché a suo carico il collegio rileva gravi indizi: contraddizioni, pericolo di fuga e di manipolazione delle prove. Dopo le prime giornate in cui sembra spavaldo e sicuro di sé, il giovane dà segni di cedimento: "La mia fiducia nella giustizia comincia a scricchiolare - scrive in una lettera dal carcere-. In cella leggo e scrivo per non impazzire. La battaglia per la libertà si fa più lunga".

Intanto sono resi pubblici i dati dell’autopsia effettuata sul corpo del dottor Motta. L’arma usata, si legge, "forse è un tubo metallico o un robusto randello". Sulla base dei rilievi compiuti risulta inoltre che il medico sia stato colpito ripetutamente, forse quattro o cinque volte. Il capo presenta una lacerazione di oltre nove centimetri. Causa del decesso: lo sfondamento della cassa cranica.

LE ARMI DEL DOTTORE. I giorni passano, il legale di Ansaldi insiste affinché le indagini puntino su altre direzioni: "La scoperta di armi da guerra nello studio del dottor Motta conferma che le indagini non sono concluse e che devono spaziare a 360 gradi", sostiene. Si scopre, infatti, che il medico era un collezionista di armi. Antiche, ma anche moderne e soprattutto detenute illegalmente. Sotto il pavimento dello studio gli investigatori, insospettiti da alcune piastrelle fuori posto, scoprono un fucile mitragliatore in dotazione all’esercito israeliano e altre pistole.  Armi illegali, vero, ma secondo chi indaga questo non ha alcuna relazione con il delitto. Insomma, una semplice “passione clandestina” del dottor Motta: la pista viene scartata.

LA SCARCERAZIONE DI ANSALDI E LO SFOGO DI FEDERICA: Il 24 settembre 1994, due mesi dopo l’omicidio, il primo colpo di scena: il Tribunale di Cuneo decide per la scarcerazione di Mauro Ansaldi: il rappresentante di articoli sportivi resta comunque indagato, secondo il giudice nei suoi confronti restano gravi indizi di colpevolezza. 

Federica Motta rompe il silenzio e urla tutta la sua rabbia: “Maledico l'assassino. Quello vero, libero e senza volto". Se la prende con chi ha indagato"Follia: fin dal primo giorno hanno sospettato di me. E' stato un tiro al bersaglio: pettegolezzi, giudizi da provincia perbenista, parenti maldicenti fino a sospettarmi dell'assassinio di mio padre". Un giudizio durissimo: "La verità è che non fanno niente, non stanno facendo niente per scoprire la verità. Sono angosciata, sto vivendo un incubo: interrogata, accusata, umiliata. Ogni giorno continuo ad essere giudicata, anche dagli sguardi e dalle battute della gente. Quella stessa gente che detestava la mia sincerità, che mi trovava scomoda e non ha esitato a spararmi addosso".

La gente. Che Federica bolla così: "Le parole uccidono a volte. E il giorno che hanno ammazzato mio padre qualcuno ha colpito anche me. Qualcuno che non ha perso l'occasione per tirare conclusioni affrettate". Sul suo rapporto con il genitore dice: "Avevamo idee molto diverse sull'impostazione della vita, per questo siamo arrivati ad ignorarci”. Sull’assassino: “A chiunque sia stato ad ucciderlo auguro di passare la vita a ricordare".

IL PRIMO TENTATIVO DI SUICIDIO DI ANSALDI. Mentre la famiglia pur di arrivare alla verità arriva ad ingaggiare un detective privato, l’inchiesta ufficiale si arena. Intanto la notte tra il 26 ed il 27 maggio del 1995, 10 mesi dopo il delitto, Mauro Ansaldi tenta il suicidio. L'uomo, che nel frattempo si è separato dalla moglie e abita a Cuneo insieme con Federica nello stabile di via Statuto 4 in un appartamento sotto quello dove si è consumato il delitto, alle 5 del mattino ingerisce una notevole quantità di barbiturici. Immediatamente trasportato al pronto soccorso del Santa Croce gli viene diagnosticata una grave intossicazione da farmaci. Ricoverato per qualche ora in Rianimazione, nel pomeriggio è trasferito in reparto, fuori pericolo.

L'USCITA DI SCENA. Il 1° giugno 1996 è una data chiave nel delitto Motta: 23 mesi dopo l'assassinio, il sostituto procuratore della Repubblica Giraudo presenta al gip la richiesta d'archiviazione nei confronti di Mauro Ansaldi e della fidanzata Federica. Per entrambi la prova del Dna ha dato esito negativo. Le tracce ematiche raccolte sul corpo e sui vestiti della vittima sono state fatte analizzare dai tecnici della Criminalpol: non appartengono né ad Ansaldi, né alla figlia del medico ucciso. L'ex rappresentante di Bergeggi esce di scena. Le indagini debbono ripartire daccapo.

IL RISARCIMENTO. Il 12 giugno la Corte d'Appello di Torino stabilisce il danno economico patito dal compagno di Federica Motta: per l'ingiusta detenzione di 44 giorni in carcere Mauro Ansaldi percepirà 12 milioni di Lire. Un'inezia, di fronte alla richiesta presentata di 100 milioni.

IL SUICIDIO: Il 4 novembre 2005 Mauro Ansaldi, che nel frattempo ha 41 anni e sta vivendo accanto a Federica Motta a Cuneo dove ha intrapreso l'attività di agente immobiliare, si reca in un mini appartamento di Roccavione che il giorno prima aveva mostrato ad alcuni clienti. Esce sul balcone, appoggia una sedia alla ringhiera, sale e si getta nel vuoto: un volo di 13 metri che non gli lascia scampo.

Il racconto dell'omicidio Motta si interrompe qui. Da quella mattina di luglio in cui una mano ignota massacrò il medico che amava le armi sono trascorsi 30 anni e sulla vicenda è calato l'oblio.

"Vorrei che mio padre fosse ricordato per quel che era. Un uomo giusto e retto che ha fatto tanto per la città di Cuneo, ma soprattutto amava la sua famiglia - dice oggi la figlia Elena -. Un padre amoroso ed un nonno che, purtroppo, non ha avuto la possibilità di vedere crescere i suoi nipoti".

Strappato alla vita senza un perché e, soprattutto, da qualcuno rimasto senza volto. 

Cesare Mandrile

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