Attualità - 06 ottobre 2023, 19:13

Una lapide nel tempio nazionale dell’internato ignoto a Padova ricorda il dronerese Fiorenzo Marino

Le toccanti parole della figlia, in occasione dell’80° anniversario dell’internamento dei Militari Italiani nei Lager nazisti

I familiari di Fiorenzo Marino davanti alla lapide

I familiari di Fiorenzo Marino davanti alla lapide

Domenica 1 ottobre, a Padova, si è celebrato l’80° anniversario dell’internamento dei Militari Italiani nei Lager nazisti. Nel tempio nazionale dell’internato ignoto sono state affisse ottanta piccole lapidi con i nominativi di internati deceduti.

Tre di queste sono state dedicate ad internati della nostra Provincia: Peirone Antonio, Mascarello Giacomo ed il padre di Tiziana Marino, il dronerese Fiorenzo Marino. 

“Il 23 settembre del 1943  - racconta la figlia - mio padre era un ragazzo ventunenne, teleferista della quarta compagnia che difendeva le montagne al confine con la Francia. I  tedeschi gli fecero consegnare le armi e lo destinarono ad un campo di lavoro in Germania. Lo caricarono su un carro merci pieno di pidocchi, lo portarono nello Stammlager V B nella regione di Baden Wuttemberg, nella foresta nera in Germania a circa 50 km dal confine svizzero. 

Divenne il prigioniero n° 43616 e per due anni visse in condizioni disumane. Con lui due amici di Dronero, uno di essi morì nel tentativo di evadere dal campo. Non avevano cibo a sufficienza, si accontentavano di una misera brodaglia e per sopravvivere erano costretti a rovistare anche tra la cenere e mangiare bucce di patate.

Mio padre, come gli altri militari, considerato manodopera sfruttabile a piacere dal Terzo Reich , fu impiegato in un’azienda metalmeccanica e vi lavorò per circa due anni, altri prigionieri  furono impiegati nei campi e nelle fattorie. Tentò di evadere con il suo amico Quarto ma, catturato, passò tre mesi in carcere finchè nell’aprile del 1945 lo Stammlager venne liberato e lui arrivò a casa nell’agosto di quell’anno così magro tanto che i suoi familiari stentarono a riconoscerlo.”

Di quel terribile periodo trascorso, rimangono del signor Fiorenzo alcune lettere.

Ecco alcuni suoi passaggi: “questa vita maledetta “, “siamo rinchiusi come salami  costretti a lavorare 12 ore al giorno”  “Chissà che cosa si dirà di noi in Italia, è meglio che stia zitto”, “cari genitori e sorelle mandatemi un gilè, mettetelo nel primo pacco perché abbiamo paura di dover passare qui un altro inverno”, “è ormai trascorso un anno di prigionia, quando finira?”.

Gli internati militari Italiani, gli IMI, sono quei soldati  che dopo l’armistizio dell’8 settembre 43 non hanno voluto associarsi né ai tedeschi, né alla Repubblica Sociale. Vennero chiamati così dai nazisti e rimasero, per la maggior parte, fedeli al regio esercito. Per questi soldati furono anni durissimi, di privazione, di maltrattamenti e di prigionia, costretti a lavorare in condizioni terribili per i tedeschi nelle industrie o nelle fattorie.  Erano considerati traditori dai tedeschi e dai fascisti della Repubblica Sociale Italiana, erano considerati membri dell’esercito regio e fascisti dagli antifascisti.

Durante il periodo di detenzione non avranno diritti, non saranno protetti dalla convenzione di Ginevra, della tutela della croce rossa internazionale e delle altre organizzazioni umanitarie, per il loro non riconoscere l’unica Italia possibile per i tedeschi: quella della repubblica di Salò.

La storiografia del dopo guerra ha parlato di rado degli IMI ma in questi ultimi anni, anche grazie all’apertura di alcuni presidenti della Repubblica, iniziano ad essere considerati come fautori di una resistenza senz’armi.

“Ora che mio padre non c’è più - dice Tiziana - rimangono le sue parole, testimonianza di quanto sia crudele la guerra e di come sia bella la pace: rimane il suo esempio di sacrificio e di lavoro, di apprezzamento per la conoscenza e la cultura. Aveva fiducia nelle capacità e nelle idee delle nuove generazioni, che hanno il dovere di imparare dal passato per costruire un futuro di pace”.

Beatrice Condorelli

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