Proseguono in Corte d’Assise ad Asti le udienze del processo a carico dei braidesi Nicholas Luppino, 37 anni, e Daniele Savoia, 24, rinviati a giudizio per omicidio volontario e occultamento di cadavere in relazione all’uccisione del muratore di origini albanesi Avenir Hysaj, conosciuto come Nino, 34 anni, scomparso da Bra il 21 febbraio 2021 e rinvenuto privo di vita quasi un mese dopo, il 19 marzo, in una zona boschiva nelle campagne di Pocapaglia, ucciso con tre colpi di pistola alla testa.
Diversi i testimoni che, tra il dicembre scorso e la giornata di ieri, sono sfilati di fronte alla giuria popolare presieduta dal dottor Alberto Giannone (è la stessa chiamata a giudicare il gioielliere di Grinzane Mario Roggero) e chiamata a valutare le responsabilità dei due imputati, che dal giugno 2021 sono detenuti in carcere, il primo a Genova e il secondo ad Alessandria.
Difesi rispettivamente dagli avvocati Renato Cravero di Torino e Carla Montarolo di Biella, i due hanno sempre respinto ogni addebito non riconoscendo le responsabilità ascritte loro nel quadro accusatorio ricostruito dagli inquirenti coordinati dal pubblico ministero Simona Macciò.
Secondo la tesi dell’accusa il 34enne artigiano sarebbe stato invece la vittima di un’esecuzione conseguente probabilmente a un debito di droga. I genitori dell’uomo – ora costituiti come parte civile, insieme alla figlia, col patrocinio dell’avvocato Marino Careglio e del collega Alessio Pergola – erano stati tra le ultime persone a vedere in vita il muratore, che li aveva accompagnati in auto presso un supermercato della zona, salvo poi non tornare a prenderli come convenuto. Da lì la denuncia di sparizione e ricerche passate anche per la trasmissione "Chi l’ha visto?". Solo dopo alcune settimane si sarebbe arrivati al ritrovamento del cadavere.
Le indagini si erano presto dirette verso quei due conoscenti dell’uomo ora imputati localizzando il fatto nelle vicinanze del circolo braidese "L’Arcobaleno" di via XXIV Maggio a Bra, gestito da Luppino e dove Avenir Hysaj era stato visto prima di scomparire. Secondo gli inquirenti il delitto, così parte delle serie di azioni seguite allo stesso per disfarsi del cadavere e coprirne le tracce, sarebbe stato consumato in un capannone abbandonato nelle adiacenze di quel ritrovo, nella zona di via Piumati.
L’attenzione degli investigatori si erano presto rivolte a una Porsche Macan di proprietà di un ristoratore di Cherasco, non indagato. Un’auto che quel 21 febbraio era stata prestata a Luppino e che proprio in quella giornata era stata inquadrata da una telecamere della video-sorveglianza comunale presente presso il circolo, dove avrebbe stazionato diverse ore, e quindi presso un supermercato braidese in un orario compatibile a quello di emissione di uno scontrino ritrovato a pochi metri dal luogo del rinvenimento del cadavere. Il documento fiscale comprovava l’acquisto, pochi minuti dopo le 15 di quella domenica, di una serie di generi tra i quali detergenti, candeggina e acido muriatico, nell’idea degli investigatori utili a coprire le tracce del delitto.
Ma prima di allora – hanno riferito i Carabinieri in aula – erano stati proprio gli accertamenti effettuati sul Gps installato a bordo dell’auto – che nelle settimane successive sarebbe stata peraltro venduta in un paese estero – a consentire agli inquirenti di ritrovare il cadavere nel burrone di località Mormorè, al fondo del quale era stato occultato nel pomeriggio di lunedì 22 febbraio, il giorno successivo all’omicidio, intorno alle 16.
Tra i testimoni dell’accusa sentiti dalla corte, anche la biologa dei Ris dei Carabinieri che ispezionò lo stabile presunta scena del delitto: un capannone abbandonato e accessibile a chiunque, come obiettato dai legali della difesa. Qui – ha riferito la teste – vennero ritrovate tracce di sangue che si è poi verificato appartenere alla vittima, insieme a una cartuccia inesplosa calibro 6.35, lo stesso dei proiettili estratti dal cranio del muratore, e il bossolo di un’altra cartuccia. Dal pavimento, insieme a vari generi di materiali e rifiuti, i Carabinieri avevano anche raccolto cinque mozziconi di sigaretta (una minima parte dei ben numerosi presenti in quel contesto, l’obiezione della difesa), su due dei quali i successivi accertamenti del Ris ritrovarono il profilo genetico di Savoia, mentre sugli altri non furono ricavate corrispondenze utili alle indagini.
Nell’udienza tenuta ieri ha invece deposto l’ex compagna di Savoia, che il Pm Macciò ha chiamato a rendere conto di un’intercettazione telefonica del giugno 2021, nei giorni seguiti all’arresto dei due imputati, nella quale conversando con un amico la donna aveva riferito come il compagno fosse rientrato a casa con due zaini, uno dei quali avrebbe scoperto contenere abiti sporchi di sangue. Una circostanza che la testimone non ha però confermato in aula, sostenendo di non ricordare quella circostanza.
"Nessun reperto biologico e nessuna traccia è stata individuata nel Circolo Arcobaleno, ma in locali abbandonati ben distinti e lontani dal circolo, accessibili a chiunque, come peraltro accertato dal Ris", rimarca l’avvocato Renato Cravero, difensore di Luppino, che ribadisce "la totale estraneità del mio cliente ai fatti ascritti", segnalando poi come "l’unico dato emerso a suo carico riguardi l’aver imprestato quell’automobile all’amico dietro sua precisa insistenza", con la ragione di doverci portare il cane dal veterinario, mentre "manca qualsivoglia elemento diretto che dimostri un suo reale coinvolgimento".
Una posizione protestata anche dalla collega Carla Montarolo, legale di Daniele Savoia: "Il mio assistito si è sempre dichiarato assolutamente estraneo e di non sapere nulla di questo omicidio".