Social Media Marketing, un libro con un titolo che abbiamo già sentito.
Probabilmente è vero, lo ammetto. Nel mio caso, ciò che mi ha spinto a scrivere è stata la volontà di sistemizzare un ramo delle mie conoscenze per poterle trasmettere a chi fosse interessato, lo avrei potuto fare anche prima o più in là nel tempo. Dobbiamo guardare altrove per coglierne l’originalità, ed è al sottotitolo che mi riferisco dove specifico “Fra UGC ed algoritmi”.
Piattaforme ed algoritmi hanno la loro intrinseca ragione d’essere hic et nunc, qui ed ora, questo è il loro momento, proprio come nel cinema abbiamo avuto il momento di Platoon e del Vietnam rinarrato dal punto di vista dell’America cinica ed imperialista o quello delle crisi esistenziali, solipsistiche e metropolitane dei Trevis di Taxi Driver. Epifenomeni che sono stati narrati toccando il nostro immaginario più profondo perché quello era il loro momento.
Algoritmi, e ancora algoritmi sembra la parola d’ordine per accedere al regno del sapere.
Assolutamente, e il piatto forte non è ancora arrivato. Ciò che oggi gustiamo attraverso le piattaforme, tutte e non solo quelle di Social Media, è solo l’inizio, un dessert. I Social rappresentano uno dei possibili habitat degli algoritmi, mentre, erroneamente, molti ancora credono che sia quello il loro territorio privilegiato di azione. Non è così: siamo continuamente spalleggiati nelle nostre scelte dalla loro invisibile presenza. Le menti sintetiche scelgono per noi viaggi, prodotti, influenzano le nostre più ampie abitudini di consumo suggerendoci libri, film, titoli azionari, alberghi, voli aerei, assicurazioni, ristornati e, anche laddove ci sembra di avere interfacce umane, come per esempio nelle ipotesi dei prestiti bancari o nell’elaborazione di certe diagnosi o nelle operazioni di selezione di studenti destinata all’alta formazione o per trovare un posto di lavoro qualificato, stiamo dialogando con uomini che dialogano con macchine.
Una sorta di Uroboro, il serpente che si mangia la coda e come possiamo uscirne?
E’ sotto gli occhi di tutti ormai che il nuovo capitale è quello algoritmico, chi possiede il migliore algoritmo possiede il mondo. Un capitale speciale che codifica una notevole quantità di spere sociale. Gli algoritmi gestiscono molteplici aspetti della nostra società e sono il braccio armato del nuovo potere, quello dell’economia sintetica, l’economia costruita sull’intelligenza macchinica; sarà proprio l’algoritmo definitivo a essere l’ultima invenzione dell’uomo. Perciò, no, non ne usciremo. E poi perché dovremmo farlo? Ci sono anche dei vantaggi, è giusto affermarlo altrimenti il messaggio potrebbe sembrare eccessivamente allarmistico.
Ad esempio?
Questa non è la sede per citarli tutti ma gli algoritmi sono messi a presidio e ad ausilio delle nostre scelte e della nostra comprensione della realtà per governare la complessità. Quando siamo sopraffatti dalle informazioni, il termine tecnico è “sovraccarico cognitivo”, gli algoritmi sono al nostro servizio per aiutarci a gestirle.
Lei però, nel suo libro, sembra molto critico sull’uso pervasivo che l’industria sta facendo degli algoritmi e cita, per esempio, Amazon e Facebook e Google come piattaforme che li impiegano in modo aggressivo e per certi versi pericoloso.
Non lo nego. Su queste piattaforme solo all’apparenza opera un sistema di democrazia relativamente alla circolazione dei contenuti e al diritto di parola dei soggetti che partecipano alle conversazioni sociali invece, dietro la facciata, le regole sono imposte da una rete di menti sintetiche; gli algoritmi che vi si installano andrebbero paragonati a Idra, la dea dalle molte teste. Per esempio, Google impiega nel suo motore algoritmi complessi che usano sotto-algoritmi per processare diverse informazioni e conseguire diversi scopi. RankBrain e parte del più generale Hummingbird e forma un sistema di AI debole che utilizza metodi di Machine Learning.
Tutti coloro che hanno fatto un acquisto su Amazon, per esempio, sanno che l’algoritmo fornisce loro i prodotti cercati e tuttavia pochi sono al corrente che anche le recensioni sono ordinate e sottoposte alla lettura secondo un criterio deciso dalla macchina. Ma il fatto stesso che Amazon abbia lanciato dei servizi su cloud ricompresi sotto l’etichetta AWS, acronimo di Amazon Web Services, e che molti di questi sono tratti dalla frontiera dell’AI, collocano l’azienda ai vertici della ricerca in tale settore insieme ad Alphabet (i.e. Google) e Facebook.
Nel 2017 (fonte Wikipedia) Amazon AWS ha prodotto ricavi per oltre 17 miliardi di dollari. E’ indubbio che il gigante di Seattle sviluppi tali sistemi di intelligenza anche per ottimizzare la propria piattaforma di Social Commerce. Così si possono spiegare i natali del programma noto come “Amazon Rekognition” che permette il riconoscimento facciale, o dei contenuti scritti o degli oggetti o persino delle azioni che avvengono dentro le immagini di una video ripresa. Lo stesso è possibile fare all’interno della scena in una fotografia.
Un armamentario tecnologico ed intelligente che potrà servire a controllare, fra le altre cose, tutto quello che viene caricato sulla piattaforma, quali foto verranno utilizzate nelle schede dei prodotti dai venditori e quali immagini faranno da accompagnamento alle recensioni e via dicendo. Per concludere il ragionamento è utile anche citare il servizio noto come “Amazon Comprehend”. Lo facciamo perché sulla piattaforma non è di minore importanza la questione dei contenuti scritti: la gente scrive ma la semantica non è sintassi, dunque leggere per capire è un compito che, se assegnato ad un calcolatore, è molto più difficile che leggere e basta. A Seattle hanno quindi avviato questo programma di elaborazione del linguaggio naturale (NLP, Natural Language Processing) che è basato su un algoritmo e serve a cogliere il significato dei contenuti scritti, ad attribuire un sentiment ai testi e persino ad organizzare una sistema di indicizzazione per argomenti che è stato battezzato “Topic Modeling”. L’idea è che se si stanno cercando, ad esempio, delle recensioni sul cibo, piuttosto che su un elettrodomestico o sulla pizza, il sistema identifica i documenti che la menzionano e li tassonomizzerà come si desidera.
Non ci sono solo algoritmi: nel sottotitolo lei indica anche un acronimo UGC: User Generated Content
UGC è uno dei tanti acronimi cari agli autori americani. Significa User Generated Content ovvero Contenuti Generati dagli Utenti. Ci sono letteralmente derrate di contenuti, anche multimediali, che vengono dati in pasto alle piattaforme sociali e formano un'ecologia di materiali realizzati persino spontaneamente, senza un fine pratico, da soggetti che lo fanno per hobby o per gioco.
Il libro affronta il tema degli UGC nel dettaglio, ed è questo a fungere da collante di tutta l’opera. Non solo si valuta la nota distinzione fra i contenuti generati spontaneamente e contenuti sollecitati e incentivati ma si và in profondità per capire come questi possano essere utili nelle campagne di Social Media per i brand.
A dare corpo alla teoria ci pensa poi un’ampia case history ed è così che vengono analizzate, anche in maniera piuttosto ravvicinata, alcune importanti campagne realizzate da alcune marche sotto la bandiera a stelle e strisce, qui possiamo citare: West Helm, Galco, Pinguin Books, Ridge, DKNY, DermaBlend Pro, Marc Jacobs, Starbucks, Crocs, e parecchie altre.
Uno dei punti centrali dello studio è finalizzato a comprendere come si arriva cocreazione del valore, come si usano i social Media per coinvolgere il pubblico in qualità di utente attivo che partecipa con la propria passione e talvolta persino con la propria creatività a costruire una comunicazione che rafforza la brand equity.
Vorrei ora andare su un tema per il quale le chiedo di suggerirci una visione più orientata ad un approccio filosofico magari anche rischiando di discostarci un po' dal libro. Oggi si dice che il mondo virtuale e quello reale tenderanno a fondersi, lei cosa ne pensa?
A questo proposito vorrei citare Luciano Floridi: << Poiché le interfacce divengono progressivamente meno visibili, diviene più sfumato il limite tra il qui (analogico, basato sul carbonio e offline) e il là (digitale, basato sul silicio e online), per quanto ciò accada tanto a vantaggio del là quanto del qui. […] Il mondo digitale trabocca nel mondo analogico off line, con il quale si sta mescolando.>>
Personalmente condivido la sua opinione ma non fino al punto in cui poi si spinge indicando, poco oltre al testo citato, che il limite a breve si dissolverà: << la distinzione fra on line ed offline è destinata a divenire ancora più sfumata e quindi a scomparire. >>
Dopo millenni di vita analogica siamo in un’evidente fase di transizione verso l’era del “tutto digitale”, questo è fuori di dubbio. Alex Pentland, lo cito spesso perché coglie appieno il fenomeno, afferma che: << l'identità è una questione analogica>> e l’identità a cui riferisce è quella umana.
Persino la caratterizzazione dell’elettricità come forma di energia interscambiabile in ogni applicazione tecnologica che fa da corollario alle nostre esistenze, a tal punto che qualcuno l’ha definita l’”esperanto dell’energia”, è divenuta parte del medesimo fenomeno pervasivo del digitale che, in modo indissolubilmente interconnesso, partecipa a questo progresso e, diciamo pure, lo alimenta. Dire che lo alimenta è un gioco di parole per sottolineare come l’energia funge essa stessa da acceleratore alla corsa al digitale per la sua promessa, molto ghiotta, di poter essere sensorizzata, temporizzata e gestita per risparmiare i consumi su scala globale.
È perciò in atto la “corsa all’oro digitale”. Dobbiamo fare attenzione anche al rischio costituito dalle ipotesi di manomissione energetica, che è uno dei punti apicali di vulnerabilità della nostra attuale tecnologia delle ICT digitali a livello globale: chi ne manomettesse l’approvvigionamento o la produzione potrebbe causare danni incalcolabili anche solo con un’interruzione temporanea del servizio. È strano che se ne parli poco e che si veda l’energia in chiave negativa solo come fonte di inquinamento senza valutare le eventuali ipotesi di sabotaggio e i danni conseguenti. E tuttavia, ciò che entra nel dibattito persino con minore frequenza, almeno se si tiene conto dell’informazione main stream, ciò che sembra passare silenziosamente in secondo piano nell’ordine delle cose è appunto ciò che Floridi sottolinea ovvero l’ipotesi della realizzazione di una completa pervasività del mondo sintetico. Mi preoccupa soprattutto il fatto che da parecchi osservatori si avverta questo scenario con un’evidente deriva fatalista.
Sarei più cauto sull’argomento. Intanto credo che non basti né una rondine a fare primavera e neppure stormi di rondini, almeno quando si vorrebbero avvallare tesi di questa portata, tesi rivoluzionarie e di grande impatto. Insomma, il rischio di overfitting, ovvero di scambiare il rumore per il segnale senza le dovute precazioni sarebbe troppo elevato. La magnitudo di questi fenomeni richiede cautela. Il cervello delle rondini potrebbe essere impazzito come accade ai sonar delle balene che le fanno spiaggiare. Per poter argomentare il fenomeno della scomparsa del limen, il concreto perpetuarsi dell’effetto osmosi del mondo duale: analogico -carbonio e digitale - silicio dobbiamo indagare a fondo altri aspetti e cercare qualcosa di più che la pervasività di una tecnologia. Ok, è ovunque e allora? Il fatto che il limen possa scomparire dipende da noi, ha a che vedere con il nostro acume intellettuale, con il comune sentire e con la percezione dei sensi; dire che è un fenomeno in atto con la leggerezza del dire “oggi piove” mi sembra troppo riduttivo.
Lei sostiene dunque che accogliere l’opinione di Floridi che potrebbe essere anche motivata dal fatto che lui probabilmente la utilizza per rilanciare il neologismo di “infosfera” che ha coniato, porterebbe a favorire approcci non sufficientemente critici al dibattito intorno a questi fenomeni?
E’ esatto. Il libro che ho scritto tratta temi più commerciali e pratici, ora, come mi ha chiesto, stiamo ragionando in termini filosofici su fenomeni che però hanno un immenso impatto effettuale su tutti noi. In qualche modo la cornice di separazione, o di unione, e tutti i suoi possibili gradi intermedi, fra il mondo digitale e quello reale, ci porterà inevitabilmente a riorganizzare il nostro modo di pensare e il nostro approccio all’ high tech, alle ICT digitali, alla robotica e all’ intelligenza artificiale e nel modo in cui l’essere umano si rapporta ad esse ragionando in termini di spazio delle possibilità che questo “non luogo” e “non tempo” potrà realizzare per lo sviluppo e la gestione delle nostre vite.
Un minimo comune denominatore che collega il pensiero di molti osservatori del fenomeno si è pericolosamente spostato, nell’ultimo decennio, dal possibile attrito che avrebbe l’AI Forte sulla nostra società, in cui la dicotomia era fra utopia sociale positiva versus mera distopia, ad una contrapposizione più morbida e meno definita appunto quella che ci suggerisce Floridi della permeabilità del mondo sintetico con quello organico. Il rischio è che presumendo che il mondo analogico e quello sintetico si stiano ormai nebulizzando uno nell’altro, finirà per farci assumere un atteggiamento troppo distaccato rispetto al problema e porterà il comune sentire e, dunque la politica, verso un’accettazione passiva del futuro: mancheremo di spirito critico.
L’entusiasmo per l’innovazione è contagioso, ma è anche genuino? I capitali immensi che sono in gioco, per non parlare poi del futuro del mercato del lavoro con il pericoloso effetto di sostituzione fra lavoratori e macchine, oppure il tema della leadership planetaria spartita a due, fra Usa e Cina, uniche nazioni a detenere il primato, quasi esclusivo sul know how tecnologico dell’AI, ci permettono di essere così facili ai contagi con idee positive e possibiliste?
Per essere critici è utile avere un timore che ci faccia da sfondo. Le Rivoluzioni anche solo se menzionate servono alla propaganda anche a questo, innalzano la posta in gioco e dunque fanno da leva e alimentano il conflitto, di fatto lo orientano ad un fine. La minaccia del terrorismo è concretamente presente nell’opinione pubblica delle società che ne hanno conosciuto gli effetti. Insomma, non occorre in queste sede essere così estremi ma è certo che fino a che era ben presente un’eco diffusa sui timori per l’AI forte (penso ad esempio agli esperimenti come quello di Searle sulla Stanza Cinese) o semplicemente era diffuso il clima intellettuale delle distopie futuristiche, prima letterarie e poi cinematografiche, che tutti rammentiamo per esempio nei film The Island o The Matrix, allora il rischio che il dibattito si facesse così piano come sta accadendo ora non c’era. Infatti, tra le altre cose, si levavano voci autorevoli come quella di Stephen Hawking che affermava <<the development of full artificial intelligence could spell the end of the human race” >> o, per citare sullo stesso tema Elon Mask << We need to be super careful with AI. Potentially more dangerous than nukes.”>> e molte altre. Oggi invece si osa con una critica molto meno radicale.
Oltre tutto lei ha osservato nel libro che le piattaforme sociali sia di e-commerce che di Social Network Service sono pensate per servire gli utenti ma solo in seconda battuta.
Questo è un ulteriore segnale di allarme. Come ho cercato di dimostrare in più punti del libro le piattaforme non sono così servizievoli come vorrebbero far credere, non fanno parte di un progetto umanitario di tutela e salvaguardia dei valori dell’umanità, non cooperano per creare un mondo migliore più equo e più solidale. Vanno piuttosto analizzate come dei punti di gate keeping e fondano un distillato di potere informazionale, spesso anche in concorrenza con i media dell’informazione classica ed accreditata, e perciò si impongono come la nuova valuta del capitalismo di ultima generazione, quello che ho definito appunto come capitalismo dell’economia sintetica.
Le piattaforme hanno un mantra tattico, ossidano progressivamente le nostre abilità critiche, operano per blandire tutti noi, come il flauto di Hamelin raccontato dai fratelli Grimm; ci incantano con i loro messaggi rassicuranti. In questo, le interfacce utente (UI, User Interface) sono il nostro peggior nemico. La mancanza dell’interazione fra esseri umani porta, con l’uso, a sospendere l’atto critico. Ricordate Chaplin in “Tempi moderni”, dopo un po' il logorio della catena di montaggio lo ingurgita e lui stesso diventa parte di quel meccanismo, diventa una macchina. Facciamo attenzione le piattaforme possono produrre lo stesso effetto. Del resto, già oggi “siamo” i nostri cellulari.
Invece paradossalmente, almeno da questo punto di vista guardare la Tv non è altrettanto rischioso come interagire con l’UI di una piattaforma perché l’uomo teme sempre l’uomo e nel suo volto e nella gesticolazione legge le ipotesi di conflitto come ci insegna la PNL (Programmazione Neuro Linguistica).
Immaginare acriticamente che uomo e macchine possano vivere una realtà ibrida senza soluzione di continuità, che sintetico ed umano siano in fase di coniugio, e di farlo in un clima passivo di accettazione, sarebbe come vivere in uno Stato in cui tutti sono convinti di avere una democrazia ed una redistribuzione delle risorse che è alla quintessenza della perfezione, a un tale ipotetico stato delle cose l’interesse del popolo verso la politica non avrebbe più scopo di esistere. L’eccessiva accondiscendenza non è certo l’humus su cui costruire un ragionamento critico.
E per muoversi con spirito critico cosa si dovrebbe fare?
Occorre iniziare a fare vera informazione. Educare le persone a ciò che il futuro porterà aprendo le porte a quanto oggi viene sviluppato nei laboratori. Dovremo farla con spirito critico e non scommettendo sul futuro come se fosse un possibile Eldorado. In realtà qui nessuno sa cosa realmente succederà. Infatti, nessun analista serio azzarda previsioni precise sul domani. Nessuno scommette su un “calcolo esatto” di quanti posti di lavoro si perderanno, di quanta energia elettrica costeranno le nuove tecnologie, di quanto monossido di carbonio produrranno, su dove andranno a finire i dati accumulati circa le nostre esistenze o se e come si potrà migliorare il benessere complessivo e sistemico della società attraverso l’AI, e via dicendo. Invece, un buon punto di inizio consiste nel dotarsi di una cornice etica che sappia accogliere nuovi parametri per valutare il futuro che arriva e suggerire concrete soluzioni per le orde di lavoratori che progressivamente perderanno il lavoro a causa delle menti e delle macchine sintetiche, e soprattutto, dovremo smetterla di cercare il lato positivo ad ogni ipotesi per il semplice fatto che essere ottimisti e avere il sorriso fa tanto cool!
“Social media marketing. Fra UGC ed algoritmi”
di Alessandro de Luyk (Autore) con la prefazione di Fabio Venturi
Copertina flessibile: 352 pagine Editore: Lupetti (Gennaio 2018) Collana: Marketing & pubblicità Lingua: Italiano Il libro è acquistabile on line su Amazon Per l’indice completo si trovano maggiori informazioni sul sito: https://www.libro-socialmediamarketing.it/
ELENCO SINTETICO DE CAPITOLI DELL’OPERA Otto capitoli principali: Dalla fotografia analogica al selfie, dal fan all'influencer; UGC, User Generated Content; Social Media e Social Network; Piattaforme usate per produrre e distribuire UGC; Content Curation; Dal Purchase Funnel al Customer Decision Journey; Social Media Monitoring and Listening; Social Commerce.
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