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Attualità | 10 aprile 2025, 07:02

Paola Lanzavecchia (Confindustria Cuneo) dopo la sospensione dei dazi: "Speriamo sia un'apertura alla negoziazione, ma costruiamo il futuro anche altrove" [INTERVISTA]

La presidente della Sezione Vini e Liquori commenta lo stop per 90 giorni deciso da Trump: “Serve comunque un’azione coesa per spiegare l’eccellenza italiana. E la diversificazione non è un piano B: è il piano A”

Paola Lanzavecchia, presidente  della Sezione Vini e Liquori di Confindustria Cuneo, durante un convegno a Vinitaly

Paola Lanzavecchia, presidente della Sezione Vini e Liquori di Confindustria Cuneo, durante un convegno a Vinitaly

Padiglioni pieni, brindisi e incontri d’affari. Ma quest’anno, tra gli stand del Vinitaly, le parole che rimbalzano più spesso non sono state solo “terroir” o “denominazione”, ma “dazi” e alla fine “sospensione”. Ieri sera, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha, infatti, annunciato una tregua: 90 giorni di sospensione sulle tariffe del 20% che minacciavano l’export agroalimentare, vino in testa. Una buona notizia, certo. Ma tutt’altro che risolutiva. 

 Nel 2023, secondo i dati delle dogane, le aziende cuneesi hanno esportato verso gli Stati Uniti oltre 41 milioni di litri di bevande alcoliche, per un valore di oltre 255 milioni di euro. Solo i vini da uve fresche e mosti d’uva valgono 147,5 milioni, con cifre importanti anche per alcol etilico e bevande fermentate.

A rappresentare questo mondo fatto di lavoro, qualità e internazionalizzazione, c’è la Sezione Vini e Liquori di Confindustria Cuneo, guidata da Paola Lanzavecchia. Le 47 aziende associate danno lavoro a 1.686 addetti e generano 2,3 miliardi di fatturato, di cui 1,5 derivanti dall’export.  Ci ha spiegato come si affronta, da dentro, una situazione tanto delicata.

Come valuta l’annuncio di Trump sulla sospensione dei dazi?

“È sicuramente un segnale positivo, speriamo possa essere una prima apertura alla negoziazione".

Che clima si respirava tra gli operatori cuneesi a Vinitaly con il rischio dei dazi?

“Da una parte una certa preoccupazione, sicuramente per quello che sta avvenendo sul fronte americano, ma anche una sorta di aspettativa. Molti produttori hanno attuato un approccio prudente, direi ‘no panic’, in attesa di capire come evolveranno davvero le trattative. C’è consapevolezza dell’importanza del mercato, ma anche della necessità di prepararsi a diversi scenari. In questo momento la parola d’ordine è reattività, senza farsi prendere dall'ansia.”

Il mercato statunitense resta comunque centrale. Le sue aziende associate generano oltre 1,5 miliardi di export: come si tutela questo patrimonio?

“Parliamo di un mercato che rappresenta dal 20 al 30% dell’export piemontese, a seconda delle denominazioni. È il frutto di quarant’anni di lavoro costante, di relazioni costruite nel tempo. I produttori si alternano negli Stati Uniti, visitano clienti, importatori, distributori, presidiano fisicamente il territorio. Questo legame non si può interrompere. Anche se la situazione dovesse peggiorare, è fondamentale non mollare. Anzi, proprio adesso dobbiamo far capire ancora di più il valore aggiunto che rappresentiamo".

Se i rincari dovessero effettivamente scattare, come rispondere?

“Dobbiamo essere pronti a spiegare il perché di un eventuale aumento. Il nostro valore non si svende: si racconta. Se sarà necessario trasferire parte dei costi a valle, bisognerà farlo con trasparenza e visione, coinvolgendo tutta la filiera. Non solo il produttore, ma anche chi commercializza il nostro vino, gli importatori, i distributori e i retailer. Lavoriamo su tre livelli che devono essere sincronizzati, e serve un linguaggio comune per raccontare la qualità in modo coerente.”

Come è stato dimostrato ieri la partita non è chiusa.

“È vero. C’è ancora margine di trattativa a livello europeo e nazionale. Alcuni segnali già lo confermavano: penso, ad esempio, al lavoro fatto sul whisky, che è stato escluso dai dazi grazie a un intervento dell’Unione Europea, con il ministro Tajani in prima linea. Anche tra i player americani si percepiva una certa lucidità: molti hanno compreso che si tratta di una fase negoziale, di una mossa tattica. L’impressione è che questa pressione serva a ottenere altro sul piano geopolitico. Per questo molti di loro erano cautamente ottimisti.”

Nel frattempo, serve iniziare a guardarsi attorno. Altri mercati sono pronti?

“Sì, ma più che un piano B, lo definirei un piano A. La diversificazione dei mercati è un processo già in corso, anche se in alcune denominazioni è più avanti e in altre meno. Questa situazione ci impone di rafforzarlo. Dobbiamo avere il coraggio di investire in mercati ancora lontani o poco esplorati. Penso al Sud America, con l’accordo Mercosur, all’Estremo Oriente, alla Cina. Anche lì dobbiamo portare il nostro racconto, il nostro posizionamento, il nostro stile”.

Ma promuoversi in quei mercati costa, e le marginalità sono già risicate. Come si concilia tutto questo?

“È un problema reale. I costi per entrare in nuovi mercati sono alti e oggi le imprese hanno margini ridotti. Per questo è fondamentale che il sistema Italia si muova in modo coordinato. Ho letto che il governo sta valutando uno stanziamento da 14 miliardi per supportare le imprese che esportano negli Stati Uniti. È un segnale importante. Ma servono anche semplificazioni normative per accedere ai fondi europei per la promozione. Abbiamo bisogno di strumenti snelli, accessibili, rapidi.”

Lei ha più volte insistito sulla necessità di fare rete. Cosa intende?

“Fare rete significa coinvolgere l’intera filiera, dal viticoltore fino al punto vendita. Importatori, distributori, retailer devono essere parte del progetto. Bisogna parlare la stessa lingua e agire in maniera coesa. È l’unico modo per affrontare una fase così delicata. E questo vale sia per difendere il mercato americano sia per espandersi altrove. Non possiamo permetterci risposte individuali, serve una strategia collettiva.”

 Il nostro territorio ha le risorse per reggere in ogni caso l’urto?

“Assolutamente sì. Abbiamo ancora molte carte da giocarci. Un asset strategico che dobbiamo potenziare è l’enoturismo: la capacità di accoglienza del nostro territorio è altissima, ma possiamo fare molto di più. Possiamo sviluppare servizi, creare una filiera turistica integrata, valorizzare ancora meglio l’esperienza legata al vino. Dobbiamo remunerare ogni anello della filiera, dare valore a chi produce, a chi trasforma, a chi promuove. La parte tattica è resistere e gestire la pressione. Ma la parte strategica è costruire: non solo per non perdere gli Stati Uniti, ma per rafforzare la nostra presenza ovunque. E spiegare, anche se costerà qualcosa in più, perché il nostro vino non è mai solo una bottiglia: è cultura, lavoro, identità”.

Daniele Vaira

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