Barolo, Barbaresco, Moscato d’Asti. Ma anche pasta, formaggi, salumi, nocciole. Il made in Cuneo agroalimentare rischia una batosta senza precedenti. Con l’annuncio del presidente americano Donald Trump di voler introdurre un dazio del 20% su tutti i prodotti esteri – Italia compresa – a pochi giorni dall’apertura del Vinitaly, nel mondo agricolo sale la preoccupazione. Dal 6 al 9 aprile, Verona ospiterà la 57ª edizione del salone internazionale del vino e dei distillati. Sarà l’edizione più carica di interrogativi degli ultimi anni: a fianco dei 4.000 espositori e dei 30mila buyer da 140 Paesi, incombe l’incertezza di uno scenario commerciale che potrebbe cambiare in poche settimane. Più che una fiera, quest’anno Vinitaly sarà un termometro. Enrico Nada, presidente di Coldiretti Cuneo, lo dice chiaro: “Non è solo una questione di esportazioni. In ballo ci sono quarant’anni di relazioni e di investimenti”.
Stavolta i dazi arrivano quasi alla vigilia di Vinitaly. Cosa cambia?
“È una situazione inedita. Non era mai successo che un colpo del genere arrivasse a inizio aprile, in coincidenza con un evento che dovrebbe essere di festa e promozione. In passato era già accaduto, sempre con Trump, ma a fine anno, e quei provvedimenti erano stati annullati con l’arrivo del nuovo presidente. Stavolta invece si rischia concretamente che la misura venga attuata proprio mentre il mondo del vino si riunisce a Verona”.
Qual è la reale portata dell’impatto sul nostro territorio?
“È enorme. Cuneo rappresenta la fetta più significativa dell’export piemontese verso gli Stati Uniti. Parliamo di numeri che vanno dal 20% al 50% delle bottiglie prodotte, soprattutto nelle aree di Langhe, Roero e Albese. Io stesso sono stato tre volte negli USA tra gennaio e marzo per motivi di lavoro, e già si respirava una forte preoccupazione tra gli operatori americani. I primi a subire l’effetto saranno loro, con una perdita immediata di volumi e lavoro. Ma subito dopo toccherà a noi.”
Il dazio però non colpisce solo il vino.
“No, affatto. Il rischio riguarda tutta la filiera agroalimentare: salumi, formaggi, pasta, nocciole. I prodotti cosiddetti di ‘seconda fascia’ – quelli a prezzo più basso – sono i più esposti, perché basta poco per rendere il prezzo finale fuori mercato. E parliamo di produzioni che girano molto velocemente, che garantiscono liquidità a tante aziende. Un rincaro del 20% è insostenibile. Sui prodotti di alta gamma si può ragionare diversamente, spalmare in filiera, trovare compromessi. Ma sulle grandi quantità e i prezzi tirati, si blocca tutto”.
Cosa significa concretamente perdere il mercato americano?
“Significa buttare via quarant’anni di lavoro. Negli USA i nostri produttori si sono alternati senza sosta, hanno costruito rapporti, fatto promozione, portato in giro il nome del territorio. È un mercato consolidato, ben funzionante, ma fragile se non viene seguito. Una volta perso, è difficilissimo da riconquistare”.
Un altro punto critico è la vaghezza dell’annuncio.
“Esatto. Non è chiaro cosa esattamente verrà colpito. Si è detto ‘Italia’, ‘prodotti agroalimentari’, ma non si è specificato se ci saranno distinzioni tra tipologie, contenuti alcolici, filiere. Questo crea incertezza, blocca le trattative. Anche gli importatori americani sono fermi, in attesa di capire. È una situazione che rischia di fare danni ancora prima che il dazio entri in vigore”.
Che strategia immagina per affrontare tutto questo?
“Prima di tutto, è fondamentale capire se il provvedimento colpirà davvero tutta l’Italia, senza distinzioni. Poi serve una risposta politica forte, a livello europeo, ma anche nazionale. L’Europa non è un acquirente unico, ogni Paese ha relazioni diverse con gli USA, quindi servono trattative bilaterali intelligenti. Dobbiamo valutare le reazioni del mercato e dei distributori: vorranno che ci facciamo carico di parte del rincaro? Possiamo farlo? E dove non potremo farlo, dobbiamo essere pronti a riorientare.”
E qui entrano in gioco i nuovi mercati.
“Sì. Alcuni segnali arrivano già, per esempio dal Canada. Essendo stato colpito prima di noi da barriere simili, il mercato canadese si sta risvegliando. Stanno aumentando gli ordini e c’è più attenzione verso l’Italia. È uno sbocco importante, che dobbiamo coltivare subito, così come altre destinazioni in Asia e in Europa. La diversificazione è la chiave.”
Il territorio è pronto a reagire in modo unitario?
“Secondo me sì. I tempi sono maturi per risposte collettive. I produttori stanno già parlando tra loro: c’è la volontà di affrontare insieme gli importatori, di proporre strategie comuni. Ma resta l’amarezza: abbiamo investito tantissimo sul mercato americano, e pensare che possa saltare tutto per una decisione così poco ragionata fa male. Faremo di tutto per reagire, ma la ferita rischia di essere profonda.”