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Attualità | 23 marzo 2025, 07:00

La grande peste del 1630: il flagello che sconvolse il Nord Italia

La grande peste del 1630: il flagello che sconvolse il Nord Italia

Nel cuore del Seicento, mentre l’Europa era già provata da guerre e carestie, un nemico invisibile si insinuò tra le strade del Nord Italia: la peste. Il morbo, portato dai lanzichenecchi, mercenari arruolati nelle schiere tedesche del Sacro Romano Impero in transito durante la Guerra dei Trent’anni, si diffuse con una rapidità spaventosa, trasformando città e villaggi in scenari di morte e disperazione. Il silenzio delle strade era interrotto solo dal cupo cigolio dei carri funebri, mentre i lazzaretti si riempivano di corpi martoriati dalla malattia. La paura era ovunque: intere famiglie scomparivano nel giro di pochi giorni e il terrore dell’ignoto portò a reazioni estreme, tra accuse agli untori e preghiere disperate.

Le autorità tentarono di arginare l’epidemia con quarantene e chiusure forzate delle città, ma la gente, smarrita e impotente, si affidava alla fede, organizzando processioni e invocando protezione divina. Milano, una delle città più colpite, divenne lo scenario che Alessandro Manzoni avrebbe poi immortalato ne I promessi sposi, testimoniando il dramma vissuto dalla popolazione.

La Valle d’Aosta travolta dalla pestilenza

Nel maggio del 1630, la peste fece il suo ingresso in Valle d’Aosta al seguito di quattro reggimenti di lanzichenecchi accampati nei dintorni di Aosta. In poche settimane, la regione venne decimata: due abitanti su tre persero la vita. Già provata dalle difficili condizioni economiche del tempo, la Valle d’Aosta divenne un focolaio incontrollabile.

Le prime avvisaglie del contagio arrivarono da Donnas, Pont-Saint-Martin e Perloz. A Donnas, nell’aprile dello stesso anno, un bambino di otto anni fu tra le prime vittime. Sua madre e il fratello, colpiti dallo stesso male, mostrarono i temuti bubboni, confermando la presenza della peste. Nel tentativo di fermarne la diffusione, il borgo venne isolato, ma la sua posizione strategica lungo il passaggio tra la Valle d’Aosta e il Piemonte rese tutto più difficile. Si ipotizzò perfino di demolire il ponte che collegava Donnas a Vert, ma alla fine si optò per deviare il traffico fluviale, utilizzando una barca appositamente acquistata.

I registri parrocchiali di Saint-Vincent raccontano in modo drammatico la situazione: le sepolture si moltiplicarono, anche se non sempre venivano specificate le cause di morte. La popolazione valdostana si ridusse drasticamente, ma nei decenni successivi la regione riprese vita, grazie ai flussi migratori che portarono nuove energie per ricostruire ciò che la peste aveva distrutto.

Il Piemonte sotto l’ombra della morte

Il 2 gennaio 1630 Torino registrò il primo caso di peste: Francesco Lupo, un calzolaio, divenne il simbolo di un incubo che avrebbe devastato l’intera regione. Nel giro di pochi mesi, il morbo si diffuse con una rapidità impressionante, trasformando la città in un teatro di morte e disperazione. Le autorità, impaurite, abbandonarono la capitale sabauda, lasciando la popolazione al proprio destino. Solo il Consiglio comunale e alcuni coraggiosi religiosi scelsero di restare, tra cui due figure chiave nella gestione della crisi: il sindaco Bellezia e il protomedico Fiocchetto. Con l’arrivo dell’estate, il caldo favorì ulteriormente la diffusione della malattia, aggravando una situazione già drammatica.

Nel frattempo, la peste dilagava anche fuori Torino. A Vercelli, la popolazione subì un tracollo: il bilancio delle vittime superò i 1.300 morti, mentre le misure di contenimento si rivelarono insufficienti di fronte all’avanzata del contagio. Anche Pinerolo fu rapidamente investita dall’epidemia, e in poco tempo il morbo raggiunse il Cuneese, mietendo vittime su vittime. Alba, Saluzzo e Savigliano divennero focolai di infezione, con migliaia di vittime e un panorama di desolazione che si estendeva su tutta la regione.

Di fronte a una tale tragedia, i Savoia decisero di fuggire, rifugiandosi a Cherasco, lontano dal pericolo e al sicuro dalle strade ormai invase dai cadaveri. La loro fuga non fece che alimentare il senso di abbandono e disperazione tra la popolazione, mentre la peste continuava la sua inesorabile marcia di morte.

La Lombardia e il dramma della peste

Il caso più noto della peste del 1630 in Lombardia è sicuramente quello di Milano, reso immortale da Manzoni. La città, già provata dalla guerra e dalla fame, fu devastata dall’epidemia. Le strade si riempirono di cadaveri, mentre la disperazione portò alla ricerca di capri espiatori: si diffuse il terrore degli untori e la città precipitò nel caos.

Ma la peste non risparmiò altre città lombarde. Mantova, già indebolita dalle incursioni mercenarie, subì un vero e proprio crollo demografico. Anche Varese fu duramente colpita, così come Busto Arsizio, dove, su una popolazione di 3.000 abitanti, oltre 1.000 persone persero la vita.

Nel pieno della tragedia, le comunità si aggrapparono alla fede, organizzando processioni e cerimonie religiose per chiedere la fine del flagello. In molti casi, proprio queste manifestazioni contribuirono alla diffusione del contagio, ma lasciarono un’eredità di devozione e memoria che dura ancora oggi.

Dal dolore alla rinascita: la memoria della peste

La grande peste del 1630 ha lasciato un segno indelebile nella storia del Nord Italia. Città e villaggi furono travolti da un’epidemia che decimò intere comunità, ma che segnò anche il punto di partenza per una lenta rinascita.

Oggi, secoli dopo, le terre un tempo colpite dalla peste sono il cuore pulsante di una storia fatta di resistenza e rinnovamento. Dalla Valle d’Aosta a Torino, da Vercelli a Cuneo, da Mantova a Varese, le città e i borghi portano ancora i segni di quel passato tragico, ma sono anche testimonianza della capacità umana di rialzarsi. Ricordare ciò che è stato non è solo un dovere storico, ma un omaggio alla forza di chi, nonostante tutto, ha ricostruito la propria vita dalle macerie della peste.

Valeria Toscano

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