C’è chi soccombe al dolore e chi lo combatte con la forza del ricordo. È questa la storia dell’esule istriana Luciana Rizzotti, classe 1937, ora cittadina braidese. La sua vita è cambiata, capovolta, da un giorno all’altro. E ora capirete perché.
Iniziamo con la premessa di quella che rappresenta una pagina angosciosa vissuta dal nostro Paese nella prima metà del Novecento. Una tragedia provocata dalla pianificata volontà di epurazione su base etnica e nazionalistica, per usare le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
20mila morti. 350mila esuli. Questo è il bilancio molto approssimativo di ciò che subirono gli Italiani nelle loro terre in Istria, Venezia-Giulia e Dalmazia, colpiti dall’epurazione etnica voluta dal Maresciallo Tito e compiuta a più riprese (prima ondata 8 settembre 1943, data dell’armistizio e la seconda dal 25 aprile 1945 fino a molti anni dopo la guerra).
Non solo il 10 febbraio, ma ogni giorno è quello giusto per ricordare il triste passato nella speranza di un futuro lontano dall’odio. E il modo migliore per farlo è far parlare coloro che possono dare una testimonianza diretta, con la propria voce.
È così che nella serata di giovedì 13 febbraio Luciana Rizzotti è intervenuta al Caffè letterario di Bra per incontrare il folto pubblico che si è dato appuntamento nella sala di BrArte.
Hanno portato il saluto la professoressa Marina Isu, consigliera comunale con delega alla Scuola di Pace, la presidente di BrArte Agata Comandè e la presidente dell’associazione Albedo Flavia Barberis, quindi il via alle domande formulate dai conduttori della serata Silvia Gullino caporedattrice del Nuovo Braidese (chi scrive) e Gianni Milanesio fiduciario di Slow Food Bra.
«Voglio diffondere messaggi positivi. Far capire che la vita continua, anche se a volte ti mette a dura prova. Io ho vissuto la guerra, ho perso la mia casa, la mia terra, persone che amavo. Certi traumi non li superi mai completamente, ma abbattersi non serve», ha raccontato la donna che ha vissuto sulla sua pelle le vicende istriane, narrate nel suo libro “Istria 1945 - 1956. Il grande esodo” (alcune copie sono disponibili gratuitamente presso l’ufficio turistico di Bra).
La sua storia è simile a quella dei 350mila esuli che hanno lasciato le loro terre native italiane in Istria, Dalmazia e parte della Venezia Giulia a causa del Trattato di Parigi, firmato il 10 febbraio 1947. Le nazioni vincitrici della Seconda Guerra Mondiale (Stati Uniti, Russia e Inghilterra) decisero che l’Italia dovesse cedere quei territori alla Jugoslavia del Maresciallo Tito, alleato dei russi.
Dal 2004 c’è più coscienza di quello che è accaduto, grazie all’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio), regolamentato dalla Legge n. 92, che mira a «Conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
La memoria ci deve rendere vivi, vibranti, partecipi. Sentinelle delle manipolazioni, attenti osservatori delle falsificazioni, delle distorsioni, delle edulcorazioni della storia. «Prima, quando dicevo di essere esule istriana nessuno capiva. Adesso - sottolinea la Rizzotti - tutti hanno presente quello che abbiamo sofferto».
La vita di Luciana e della sua famiglia prima della guerra scorreva serenamente. «Mia madre e mio padre - ricorda - avevano un negozio di mille articoli. Vivevamo in una casa a Cittanova d’Istria, il negozio era al pianterreno e c’era anche la cucina, un bel cortile e sopra il nostro appartamento. Non ci mancava nulla, eravamo felici, il paese era tranquillo». Poi iniziarono i primi momenti di difficoltà. «Durante la guerra - racconta Luciana - il nostro paesino era stato colpito da 2 bombardamenti, ma fortunatamente la nostra casa era rimasta intatta».
Quando la guerra finì e il mondo festeggiava la pace, si consumò il dramma. «Un giorno - continua - i titini portarono via mio padre e lo misero in carcere, reo di aver nascosto al partito dei beni del negozio. La sua sorte fu comune a quella di tanti altri connazionali, sottoposti ad umiliazioni di ogni tipo. Molti, invece, sparivano dal paese, li andavamo a cercare, ma purtroppo non c’erano più: li avevano gettati nelle foibe».
Foibe: un termine che si aggiunge alla galleria degli orrori del ‘900 e che descrive la drammatica fine di persone colpevoli solo di essere italiane e di essere viste come un ostacolo al disegno di egemonia comunista. In molti conclusero la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione oppure furono uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità di queste cavità carsiche.
«Iniziò un incubo per noi italiani di laggiù - spiega l’esule istriana -. Tutte le cose di nostra proprietà ci furono tolte e nazionalizzate. Anche il negozio dei miei genitori fece quella fine. La convivenza con gli slavi era sempre più difficile. Poi ci offrirono la triste alternativa: o diventavamo jugoslavi oppure ce ne dovevamo andare. Noi scegliemmo di tornare in Italia. E come la nostra famiglia praticamente tutti gli altri. Le nostre case furono poi occupate dagli slavi».
Luciana e i suoi familiari si trasferirono a Opicina, un quartiere di Trieste, in un campo di accoglienza. Un periodo di grande miseria, come ha spiegato: «Per due mesi abbiamo vissuto in sei donne e quattro bambini dentro una baracca, separati da papà che era in un’altra. Il bagno comune era all’esterno e si andava a prendere il cibo alla cucina del campo. Però noi istriani siamo gente che non si arrende. Poco dopo uscì un bando per chi desiderava spostarsi in diverse regioni italiane. Noi scegliemmo il luogo più vicino a Torino, dove abitava mia sorella con la famiglia, profuga da Pola già dal 1947. E così, nel 1954, siamo arrivati a Bra, dove ci siamo ricostruiti una vita, una famiglia, nuove amicizie, un alloggio popolare nuovo e decoroso, un lavoro da parrucchiera».
Oggi Luciana Rizzotti è una nonna in pensione, ma anche un pezzo di Storia vivente. In lei, il ricordo di quei giorni è più che mai vivido. La mente è lucida. Mentre gli occhi, di un verde cristallino, si bagnano ancora nel rammentare quel dolore che è stato sì di un popolo, ma anche e soprattutto di una bambina violata nell’infanzia. Nonostante l’età non si sottrae però al compito di portare la sua personale testimonianza alle giovani generazioni. Ma anche un messaggio, che è di «Pace e libertà».
Il Giorno del Ricordo e le foibe
La decisione di istituire il Giorno del Ricordo il 10 febbraio venne presa il 30 marzo 2004 dal Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi per tenere viva la memoria delle vittime nel secondo dopoguerra sul confine orientale e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati dalle loro terre in seguito all’avanzata dell’esercito di Tito.
Al termine della seconda guerra mondiale, le città italiane di Fiume e Zara e la penisola d’Istria vennero cedute alla Jugoslavia. Ciò comportò una serie molto lunga di violenze da parte dei partigiani comunisti guidati da Josip Broz, conosciuto come Tito, nei confronti di tutti coloro che erano considerati nemici della costituzione di una federazione comunista jugoslava sotto la leadership di gruppi dirigenti di origine serba.
Due furono le ondate di epurazione su base etnica e nazionalistica da parte di Tito. La prima ondata si ebbe nell’autunno del 1943 e interessò principalmente l’Istria, dove accanto a squadristi e gerarchi fascisti vengono prelevati i possidenti e chiunque potesse far ricordare l’amministrazione italiana, che nei decenni precedenti aveva creato non pochi problemi.
La seconda ondata di violenze, invece, ebbe inizio nel maggio 1945 con l’arrivo delle truppe jugoslave in Venezia Giulia. Le rappresaglie colpirono, soprattutto, i soldati della neonata Repubblica Sociale, ma anche tutti coloro che furono accusati di collaborazionismo con i regimi nazifascisti, e alcuni partigiani italiani, rei di non accettare l’egemonia jugoslava.
Nel periodo tra il 1943 e il 1947 gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case sono stati almeno 350mila con circa 20mila vittime. Diverse migliaia tra queste, tra le 4mila e le 6mila, hanno perso la vita all’interno delle foibe, grandi cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo.
Secondo le ricostruzioni, i condannati venivano legati l’uno all’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi e disposti lungo gli argini delle foibe. A quel punto i membri delle milizie titine erano soliti sparare solo ad alcuni di loro, che una volta colpiti cadevano nelle grotte portandosi dietro l’intera fila. In molti sono morti tra crudeli sofferenze, dopo giorni ammassati sui cadaveri degli altri condannati.
Questo cosa ci insegna? Che tenere viva la memoria costituisce un antidoto indispensabile, soprattutto per le nuove generazioni, che devono guardare al futuro con piena consapevolezza, affinché tali barbarie non abbiano mai più a ripetersi.