Da lavoratori autonomi a dipendenti statali – nel caso specifico in forze al Sistema sanitario nazionale -, un cambiamento epocale per i medici di base d’Italia che secondo uno studio operato da Aprire Network tra dicembre 2019 e febbraio 2020 su un campione di 566 neo medici ha letteralmente diviso gli appartenenti al settore: il 49% degli intervistati vede il passaggio deciso dal governo e sostenuto dalle Regioni come positivo rispetto all’impatto sulle proprie condizioni di lavoro, e il 43% lo giudica invece in negativo.
Ad alzare il velo sulla segretissima bozza di riforma dell’ordinamento dei medici di famiglia riportando i dati è stata la Dataroom del Corriere della Sera. Che negli scorsi giorni ha proposto una disamina approfondita sulle modifiche all’articolo 8 della legge 502 del 1992, con cui si era determinata la libera professione per i medici di famiglia.
I punti principali della proposta di riforma
Tre le novità essenziali della bozza. La prima determina che l’attività di assistenza primaria di medicina e pediatria presupponga l’instaurarsi di un rapporto d’impiego, la seconda che il rapporto tra il Ssn e gli operatori non dipendenti sia a esaurimento (ovvero i nuovi medici di famiglia verranno assunti mentre quelli già in servizio continueranno a essere liberi professionisti a meno che non decidano di passare alle dipendenze del Ssn). La terza, infine, che l’attività sia da garantire presso gli studi e presso le Case della Comunità, in queste ultime con orario 8-20 e con la possibilità di realizzare elettrocardiogrammi, ecografie, spirometrie e vari esami.
La riforma propone un sistema di 38 ore settimanali con un minimo garantito tra cinque e quindici a seconda del numero di pazienti. Quindi i medici con 400 o meno assistiti avranno a disposizione sei ore (sulle 38) per occuparsi di loro, quelli con un range di 401-1.000 assistititi 12 ore, quelli con 1.001-1.200 assistiti 18 ore, quelli con 1.201-1.500 assistiti 21 ore e quelli con più di 1.500 assistiti 24 ore totali.
Si immagina una visione dell’attività in alternanza tra i propri assistiti, appunto, e quelli “di zona”, capace di dare ai cittadini la sicurezza di avere un medico di base reperibile “24/7”. Di rendere il percorso di formazione una laurea specialistica di quattro anni e di portare i medici al versamento di contributi all’Inps (quando invece, ora, i medici di base fruttano all’Ente nazionale di previdenza e assistenza dei medici oltre 25 miliardi di euro).
Negli ultimi giorni è stata presentata alla Camera dal gruppo di Forza Italia una proposta di decreto legge sull'argomento.
Le Case di Comunità sono la strada? "Non per forza"
Proprio alle future 1.350 Case di Comunità che verranno disseminate dalle Regioni sul territorio nazionale - pagate con due miliardi di fondi PNRR – si lega il senso della riforma secondo il governo. I nuovi medici considerano le forze in aggiunta al Ssn indispensabili per poterle far funzionare, specie in relazione al fatto che - secondo il Rapporto Sanità Crea su dati Enpam - il 77% dei medici di base italiani risulta avere più di 55 anni, e che nei prossimi sei anni dei 37mila attualmente in servizio circa 10 mila andranno in pensione.
Una realtà, questa, che tocca anche la provincia Granda. Ad assicurarlo il segretario cuneese Fimmg Lorenzo Marino, che mette però le mani avanti: “Dal 2010 in avanti, in Piemonte, i posti nei corsi di formazione sono stati progressivamente aumentati in maniera importante e quindi non si sperimenta una carenza vera e propria”.
“Nonostante tutto ci sono più posti di quelli effettivamente coperti – aggiunge Marino -: la medicina generale è una specializzazione difficile che viene scelta dai medici a fronte di sacrifici davvero importanti. Sicuramente vanno messi più strumenti in mano ai medici di territorio, come supporto infermieristico e la possibilità reale di fare rete sul territorio in un rapporto di comunicazione costante, perché è un dato di fatto il medico di base lo riesce a fare solo chi è in condizione di poterlo fare”.
E, sulle Case di Comunità: “Attualmente ci sono i fondi soltanto per le strutture e non per strumentazione e personale – commenta Marino -. Può essere una strada da percorrere ma è da valutare con attenzione: il sistema spagnolo è simile a quello proposto nel decreto ma si è rivelato fallimentare, creando troppa disparità tra zone ‘di serie A’ e ‘di serie B’ che porta inevitabilmente alla riduzione della qualità dell’assistenza. La capillarità degli studi medici sul territorio garantisce un servizio più efficace di quello individuato dalle Case di Comunità”.
Marino: "Un qualsiasi massimalista non può rientrare in quell'orario"
“L’errore principale, purtroppo storico, è quello che considera il medico di famiglia come detentore di un impegno orario da contratto nazionale di tre ore di ambulatorio almeno – racconta Marino -. Si tratta però del minimo, che non rappresenta nel concreto l’intera attività giornaliera dei nostri medici, composta non solo del tempo con i pazienti ma anche di ‘telemedicina’, attività a domicilio e in strutture”.
“Diventa impossibile pensare che un medico massimalista con almeno 1.500 pazienti riesca a rientrare nelle ore previste dal documento circolato – sentenzia il segretario Fimmg -. Sarebbe ingestibile: a oggi un medico massimalista lavora almeno 10 ore al giorno soltanto nel seguire i suoi pazienti, figuriamoci garantirne decine di altre, chissà per fare cosa, alla disponibilità del distretto. Prendere in carico i pazienti, poi, è un’attività complessa e che non si può misurare in ore”.
Fimmg pronta alla mobilitazione: "Disegno che porta a nuove soluzioni private e integrative"
“L’accordo regionale integrativo datato allo scorso maggio integra una sorta di guardia medica diurna che dia supporto alla medicina generale di territorio in modi congruenti all’orario e senza mutare l’inquadramento – prosegue ancora Marino, che assicura come molti colleghi siano letteralmente sul piede di guerra e pronti a forti mobilitazioni su base nazionale -. Con l’approvazione delle ipotesi avanzate sin dalla fine di gennaio si possono ingenerare forzose e improvvise dimissioni di massa dei medici di base, fatto che provocherebbe il caos. Barattiamo volentieri la possibilità di dire un ‘ve l’avevamo detto’ con la tenuta del sistema nazionale”.
“Se non si riesce a coprire posti e turni non ha senso offrire i vantaggi del pubblico, perché non diventeranno mai realtà – conclude il segretario -. Ci pare un disegno per spingere il sistema verso soluzioni private e integrative, dimostrando che il pubblico non ce la possa fare. La politica non può agire senza interfacciarsi con chi questo lavoro lo fa e con le sigle sindacali. Chiediamo di essere ascoltati e rispettati, non denigrati: teniamo duro, siamo dalla parte dei pazienti sempre e comunque”.