Schermo nero. Rumori, gemiti e lamenti. Sembra di essere all’inferno. E per molti versi è così.
La zona d’interesse, film liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis e vincitore di due premi Oscar (miglior film internazionale e miglior sonoro), è ambientato nel 1943 ad Auschwitz. O appena fuori, in campagna e nella casa dove il comandante del campo, Rudolf Höss (Christian Friedel), sua moglie Hedwig (Sandra Hüller) e i loro cinque spensierati figli stanno vivendo il sogno del Reich.
L’area d’interesse (o Interessengebiet) era il territorio di 40 km quadrati che le SS presero ai polacchi per costruire il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau e le fabbriche di guerra dove la produzione era assicurata dai prigionieri. Tutto questo non si vede a causa di un alto muro di cinta che lo delimita e che fa da confine con l’esterno. Ci si arriva per indizi: a volte urla, o fischi di treni, o abbaiare di cani, o spari, chissà. A volte fumo, cenere, gli inconfondibili camini dei forni, talvolta abiti che qualcuno non indosserà più.
Il resto è vita quotidiana di una famiglia borghese tedesca, con la servitù, gli amici, le gite in barca, i tè della domenica, la piscina, un giardino pieno di piante meravigliose e le uscite a cavallo di Rudolf Höss per andare in ufficio a tenere stressanti riunioni manageriali. Fino a quando viene chiamato a Berlino. Da Budapest, sta arrivando un carico di ebrei ungheresi.
La soluzione finale, “calcolata in ogni minimo dettaglio costo/beneficio”, va applicata a tutto il sistema dei lager. Höss è “perfetto”, per sovrintendere. È lui a suggerire, infatti, di usare il Zyklon B (un gas usato fino a quel momento per disinfestare le baracche e le divise) per l’eliminazione dei prigionieri nelle camere a gas: più veloce.
Il tutto, mentre fuori dal campo famiglie come quella di Höss gioivano delle nuove pellicce arrivate. Un contrasto talmente stridente da far venire indignazione, rabbia e dolore. Se vi provoca sensazioni simili, il film di Jonathan Glazer ha fatto centro.