Anna, 71 anni, ha dedicato una parte significativa della sua vita alla psichiatria, ma dopo alcuni anni ha scelto di allontanarsi da una professione che, pur ricca di potenzialità, non riusciva a cogliere la totalità dell’essere umano. Ha vissuto in prima linea il periodo di riforma della legge Basaglia, sulla chiusura dei manicomi. Un’epoca di cambiamenti, che le ha mostrato quanto sia riduttivo curare senza riconoscere l’anima oltre la mente. Da sempre, la sua grande passione è stata il viaggio, un cammino che l’ha portata a scoprire mondi lontani e a vivere incontri inaspettati.
Avevo 16 anni, dovevo andare a San Sebastián, ma ho perso la coincidenza aerea e mi sono ritrovata a Barcellona sotto una pioggia torrenziale, cercando alloggio. Ho condiviso un taxi con uno sconosciuto che si è offerto di aiutarmi, ma mi ha portata in un luogo che sembrava tutt’altro che un albergo. Quando mi hanno preso il passaporto, ho capito che la situazione non era sicura. Ho finto di fare una doccia, ho recuperato il documento e sono scappata con il minimo indispensabile. Mi sono rifugiata in un bar fino a trovare una dimora sicura. Solo dopo ho scoperto che, in quella zona e in quel periodo, sparivano spesso ragazze a causa del traffico di esseri umani. È stata un’esperienza che non dimenticherò mai.
A diciassette anni accompagnatrice turistica?
È iniziato tutto grazie a un’estate in California dai miei parenti. Lì ho scoperto un mondo diverso: i ragazzi lavoravano mentre studiavano, una mentalità nuova per me. Tornata in Italia, ho deciso di mettermi in gioco. Poi il caso ha voluto che un’accompagnatrice Francorosso si rompesse una gamba proprio prima di un viaggio a Londra. Avevano bisogno di qualcuno in fretta e io ero lì, giovane, ma con una grande voglia di fare. Avevo meno di diciott’anni e il mio capo mi disse di non rivelare la mia età. Non è stato facile gestire un gruppo di adulti, ma quell’esperienza mi ha fatto crescere molto.
La prima grande avventura?
L’India, un regalo per la maturità. Volevo qualcosa di autentico, lontano dai percorsi turistici. Sono partita con Experiment, un’organizzazione che mi ha sistemato presso una famiglia indiana. L’impatto è stato scioccante: la povertà di Bombay, i corpi senza vita lungo le strade, la sofferenza palpabile. Mi sono trovata di fronte a una realtà che non potevo immaginare, e quella durezza inaspettata ha cambiato profondamente il mio modo di vedere il mondo.
Un momento che ti ha segnato particolarmente?
Tantissimi. Uno che ricordo sempre è stato quando ho visitato un lebbrosario. Centinaia di persone che non avevano praticamente nulla, mancavano persino le cose più basilari. Io e il mio gruppo siamo riusciti a donare una manovella per tirare su l’acqua da un pozzo; era un piccolo gesto per noi, ma per loro significava la vita. In quel momento ho capito quanto poco contasse, per me, il superfluo.
Hai vissuto anche esperienze più leggere?
Certamente. Ricordo una giornata in cui ci hanno portato in un safari per vedere le tigri. Nessuna tigre avvistata, ma arrivati in un villaggio proprio mentre iniziava a piovere, dopo mesi di siccità, gli abitanti ci hanno accolto come se fossimo portatori di quella pioggia miracolosa. Per l’occasione hanno organizzato una festa di ringraziamento con musica e danze tribali. Era surreale e magico. Mi sono sentita parte di qualcosa di unico, come se fossimo tutti connessi in maniera profonda e spirituale.
Cosa ti ha lasciato quel primo viaggio in India?
Mi ha addestrato a guardare il mondo con occhi nuovi. Mi ha fatto capire che, nonostante le differenze culturali, siamo tutti uniti dalle stesse emozioni, dagli stessi desideri. Quel viaggio mi ha insegnato la curiosità verso l’altro, la bellezza dell’umanità, anche nelle sue contraddizioni. È stato il primo passo di un cammino che continua ancora oggi.
Altre esperienze che ti hanno colpito?
In Messico ho avuto un incontro con uno “sciamano-donna” in un sito archeologico vicino a Palenque. Era una scena surreale: con un sigaro e un rito particolare, prevedeva il futuro osservando come cadeva la cenere. Poi la Patagonia è stata un sogno: ricordo il Perito Moreno e il viaggio tra gli iceberg. Nonostante il freddo incredibile, non riuscivo a stare dentro la barca: volevo vivere tutto fino in fondo, e infatti mi sono presa una bella broncopolmonite! In Tanzania sono andata a vent’anni, subito dopo l’India. Lì, purtroppo, ho contratto la malaria durante un soggiorno a Dar es Salaam, in una casa molto povera nella periferia della città. È stata un’esperienza dura, ma non ha frenato del tutto il mio amore per il continente nero. Nel Màghreb ho esplorato il deserto della Libia, un viaggio intenso, quasi tutto in tenda, che mi ha regalato un senso di pace unico mai provato prima.
La spiritualità come ricerca anche nella psichiatria?
Nella mia vita visitare templi e monasteri è stato speciale. C’è qualcosa di universale nella loro struttura e atmosfera: che tu sia in Cina, in Nepal o altrove in Asia, tutti trasmettono una grandissima spiritualità. La psichiatria è, in un certo senso, una forma di viaggio nell’animo umano. Ti permette di esplorare chi siamo, cosa ci unisce, se esiste una vera differenza tra me e l’altro. Credo che tutti, in fondo, abbiamo le stesse domande e cerchiamo le stesse risposte. Viaggiando, così come nella mente, continuo a cercare risposte alle stesse domande.
Un viaggio diverso?
Sì, c’è stato un viaggio completamente diverso. Sono partita in camper con degli amici, prima di sposarmi, per l’Alaska. Un Paese incredibile: paesaggi vasti e silenziosi, una bellezza primitiva e selvaggia. Un episodio curioso è accaduto in una stazione di servizio dove ci siamo fermati in cerca di benzina: era talmente isolata che sembrava appartenere a un altro pianeta. Un luogo fantasma che sembrava uscito da un film, e correva l’anno 1979.
Come hai affrontato i momenti difficili?
Viaggiare ti insegna ad ascoltare il tuo istinto. In quei momenti, la priorità è sempre mantenere la calma e trovare una via d’uscita. Ogni difficoltà ti rende più forte e consapevole, ed è parte del viaggio stesso. Anche le esperienze negative hanno contribuito alla mia evoluzione come donna e come cittadina del mondo.
Un Paese che ti ha un po’ deluso?
Il Giappone non mi è piaciuto, anche se so che piace a tanti. L’ho trovato troppo ordinato, tutto perfetto in modo eccessivo. La loro gentilezza mi è sembrata troppo formale, quasi falsa. Un mondo molto inquadrato, troppo rigido per i miei gusti. Certo, ci sono cose meravigliose da vedere, ma la popolazione mi ha un po’ deluso; non mi ha dato quella profondità che invece ho trovato in altri luoghi.
Il rapporto con la famiglia?
Sono sposata da 44 anni e ho due figli. Mio marito è una persona che mi compensa molto, anche se siamo opposti. Lui sta bene ovunque e ama le cose semplici. Io, invece, ho bisogno di cercare il complicato, l’avventura. Per molto tempo abbiamo cercato di venirci incontro, condividendo alcuni viaggi. Ma nel 2004 è accaduto qualcosa che ha cambiato tutto. Eravamo in Africa con i nostri figli e uno di loro ha contratto la malaria. È stata un’esperienza terribile: ci siamo trovati a correre dal Botswana al Sud Africa, in cerca di ospedali adeguati alla cura. L’ansia era alle stelle! Dopo quell’episodio, mio marito ha deciso di non seguirmi più nei miei viaggi più avventurosi. Ora preferisce rilassarsi al mare, in montagna o in campagna, mentre io continuo a inseguire i miei sogni per il mondo.