In questi giorni, la Comunità Internazionale occidentale è scossa dalla notizia che la Turchia, il 2 settembre 2024, ha formalizzato la sua richiesta ufficiale di aderire al BRICS, il raggruppamento delle economie emergenti, il cui acronimo è formato dalle sole iniziali di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa (Nazioni fondatrici), ma che in realtà annovera già altri 4 Paesi Membri (Egitto, Emirati Arabi, Etiopia, Iran) e ha già ricevuto la richiesta di adesione da altri 19 tra cui, da qualche giorno, c'è anche la Turchia.
Di fronte a tale decisione dai caratteri forti di Ankara, molti degli analisti “allineati” si sono affrettati ad attribuire alla politica senza scrupoli del Presidente turco Erdogan la responsabilità di questo importante passo, che sembra allontanare un po' di più il suo Paese dal mondo occidentale a cui, comunque, è tuttora ancora fortemente legato.
Che lui sia un leader duro, spregiudicato ed imprevedibile non sussiste alcun dubbio, ma non sarebbe né giusto né coerente con la realtà dei fatti caricare completamente sulle sue spalle il peso di questa situazione, la cui possibile evoluzione probabilmente potrebbe costituire un grande benefit per la Turchia ed un ulteriore e consistente problema per l'Occidente, con Unione Europea e NATO in prima fila.
Ma come è stato possibile che si sia arrivati a questo punto?
Un fattore determinante è certamente la politica estera attuata dal Presidente turco, la cui unica preoccupazione è l'affermazione del suo Paese come protagonista che, in ultima analisi, trascende qualsiasi impegno internazionale assunto da Ankara. Indubbiamente, un approccio decisamente poco ortodosso e convenzionale, ma che probabilmente non risparmierà neanche gli accordi che verranno, compreso quello con i BRICS. In pratica, per Erdogan esiste solo la Turchia ed i suoi interessi e tutto il resto è strumentale per questo obiettivo.
Una delle prime valutazioni fatte sull'attrazione “bricsiana” dei Turchi ha coinvolto l'Unione Europea ed il suo atteggiamento verso di loro e le loro richieste comunitarie. Infatti, molti hanno pensato che, lo scorso 2 settembre, Erdogan abbia reagito alla frustrazione che gli avrebbe procurato l'esclusione del suo Paese dal processo di allargamento della UE.
Vale la pena accennare qualcosa in merito, in modo da rendere chiaro un quadro che evidenzia una incredibile ed ostinata miopia europea e un plausibile risentimento turco.
La Turchia, con un periodo di 37 anni, detiene il record assoluto del processo più lungo di adesione all'Unione Europea, un calvario che non ha patito alcun Paese membro dell'Europa orientale o balcanica e, tanto meno, l'Ucraina che, comunque, è una Nazione in guerra. La prima richiesta la Turchia la fece nel 1987 all'allora CEE – Comunità Economica Europea e da allora ben 16 Paesi hanno ottenuto l'adesione, tranne Ankara, nonostante nel 1949 sia stata tra le prime ad aderire al Consiglio d'Europa, l'organizzazione per i Diritti umani con sede a Strasburgo e nel 1963 sia stata proclamata Paese associato alla CEE, in attesa di divenirne Membro effettivo.
Un percorso con alti e bassi, con vari problemi che l'hanno reso particolarmente lungo ed infruttuoso tra cui, probabilmente quello che tuttora influisce maggiormente, è la questione di Cipro, sorta nel 1974, quando le truppe turche invasero parte dell'isola, per rispondere ad un colpo di stato sponsorizzato dalla Giunta militare greca, dividendo in due l'isola.
Questo la Grecia non l'ha mai dimenticato e nel 1987 era già Membro CEE, in grado quindi di vanificare i sogni europei turchi, facendo perno sull'oggettivo divario economico che a quel tempo sussisteva, in cui il PIL pro capite in Turchia era di 1700 $, a fronte dei 16.000 di Francia e Germania.
Comunque, la CEE invitò Ankara ad attuare anche ulteriori riforme istituzionali per arrivare a soddisfare i criteri di ammissibilità, che impongono standard elevati in termini di democrazia, diritti umani, protezione delle minoranze e libera economia di mercato. Praticamente, gli stessi criteri che impone anche la NATO, che accolse nei suoi ranghi la Turchia già nel 1952 (ironia della sorte insieme alla Grecia), con il benestare delle stesse Nazioni europee che non la ritennero pronta per l'Europa nel 1987. Ma si sa, che nell'Alleanza comandano gli Stati Uniti, che compresero subito l'importanza di avere i Turchi dalla propria parte, a qualsiasi condizione.
L'unica concessione che l'Europa ha offerto alla Turchia è un accordo doganale del 1996, per il commercio di beni che non siano agricoli, carbone e acciaio. Una Unione doganale che Ankara ha chiesto di ampliare nel 2016, continuando a ricevere, sino ad oggi (circa 8 anni), l'ostinato rifiuto da parte della UE.
Una brutta storia che ha un acre sapore di ottusa miopia geo-strategica di tutti gli Stati europei, a parte la Germania, che potrebbe avere seri interessi nazionali, in considerazione dei 3 milioni di Turchi (quelli ufficiali) presenti sul territorio tedesco e del fatto che metterebbe a rischio la sua leadership demografica nell'Unione (con conseguenze sul nr. di deputati al Parlamento europeo). E Berlino, soprattutto nell'ultimo decennio, ha surclassato Atene nella sua opposizione alla Turchia.
Bisogna essere chiari. Attualmente, Ankara avrebbe sostanzialmente tutti i numeri per essere un Paese Membro della UE e la sua inclusione non comporterebbe alcun rischio, perché si tratta di una Nazione che la sua decisione “da che parte stare” la prese già molto tempo fa, entrando nella NATO e rimanendole fedele per decenni, mettendole a disposizione le proprie forze, basi, territorio e confini, che per molti anni hanno lambito il nemico dell'area sovietica.
La domanda da porsi ora è probabilmente opposta. Erdogan è davvero ancora interessato ad entrare come membro nell'Unione Europea o i giochi per l'ammissione li tiene ancora in piedi come strumento di pressione, per conseguire comunque dei risultati utili alla sua Nazione?
Per come si sta muovendo nel panorama internazionale, evidenziando una sostanziale noncuranza verso ingessature morali e vincoli tecnici, imposti dai vecchi accordi occidentali, la risposta potrebbe essere negativa o comunque senza la convinzione necessaria a dissipare i dubbi perché, molto probabilmente, la Turchia è ormai preda del pensiero che l'Occidente non sia più in possesso della forza necessaria per esercitare il suo dominio nel mondo.
Questa percezione, che non risparmia gli Stati Uniti, potrebbe trovare una dimostrazione sostanziale ed inequivocabile dal modo con cui Erdogan si sta muovendo nel sensibile settore della Difesa e, più, in generale, in quello degli armamenti, comprese le forniture.
Ad esempio, non ha avuto particolari problemi, dopo 72 anni di NATO, ad acquisire il sistema missilistico russo S 400, con i conseguenti mal di pancia da parte di Washington, che era antico alleato strategico di Ankara, per poi approvare senza esitazioni la fornitura americana a Kiev degli aerei F 16. Oppure, la disinvoltura con cui ha sostenuto l'Ucraina nella sua guerra con la Russia, incrementando però, a partire proprio dal 2022 (inizio aggressione di Mosca), i suoi rapporti commerciali con Mosca, rimanendo il terzo consumatore mondiale di combustibili fossili russi, mettendo nei polmoni di Putin ossigeno per circa 26 miliardi di dollari in due anni, di vitale importanza per la sua guerra a Zelensky. Il tutto, dopo aver dato la sua approvazione alle sanzioni economiche europee verso la Russia.
E si potrebbe continuare ad elencare gli atti e le azioni intraprese da Ankara nell'ultimo periodo, che l'hanno vista giocare su molteplici tavoli internazionali e a fianco di attori diversi, ma sempre mantenendo la propria identità di Turchia.
Dall'alto della sua superiorità morale e nel convincimento di poter e saper sancire ciò che è giusto, però sempre delineato sulla base della sua univoca visione del divenire del mondo, l'Occidente ha costantemente valutato negativamente questo approccio di Erdogan, considerandolo al meglio come uno sgarbo e al peggio come il frutto di una personalità assolutista ed assetata di potere. Il nostro Draghi lo definì un dittatore, infischiandosene di rispettare quei rituali diplomatici e quelle convenienze che animano i rapporti internazionali, che lui invece pretende nei suoi confronti.
Al contrario, volendone trarre una lezione, che è sempre l'approccio più saggio, si potrebbe e forse si dovrebbe arrivare a pensare che la Turchia stia mettendo a nudo tutte le debolezze e le vulnerabilità che il sistema occidentale sta ampiamente evidenziando, nella gestione di un periodo storico che presuppone grandi ed epocali cambiamenti. Un momento storico in cui imponenti economie emergenti, supportate da enormi masse demografiche, animate da una diversa concezione della vita e che stanno seriamente dotandosi di un'adeguata capacità militare, ambiscono a giocare un ruolo, se non preminente, quanto meno paritetico nella gestione degli equilibri del mondo.
Verrebbe da pensare che il “Dittatore” Erdogan tutto questo lo abbia ben compreso e di conseguenza stia cercando di adeguarsi, perseguendo la via che porta all'integrazione delle possibilità offerte dai due sistemi mondiali che si stanno fronteggiando e che stentano a trovare un nuovo punto di equilibrio.
In tale ottica, va sottolineato che il leader turco ha sempre affermato di non considerare l'adesione al BRICS come l'alternativa all'Alleanza atlantica o al mondo occidentale, ma solo come nuova opportunità per la sua Turchia, anche nell'ottica di trovare nuovi sbocchi che gli consentano di superare le attuali difficoltà economiche.
Erdogan è convinto che si stia avviando una nuova fase per un mondo post occidentale. Questo è molto probabilmente vero, ma la creazione di un nuovo mondo post occidentale non significa assolutamente che non ci sia l'Occidente come protagonista. Anzi, si può dire che la sua presenza attiva costituisca una condizione irrinunciabile per il funzionamento di questo nuovo mondo. Ma perché ciò accada, senza traumi bellici, bisogna che cambi la visione e l'approccio con cui l'Occidente vorrà accostarsi ed essere protagonista per la costruzione di questo nuovo mondo. Perché Erdogan, nonostante tutte i suoi difetti e le sue ambizioni, sta dimostrando che l'attuale visione egemonica occidentale ormai sembra non funzionare più.