Curiosità - 01 agosto 2024, 12:40

Cuneo: la storia della "pastasciutta antifascista" della famiglia Cervi

Il destino, quasi contemporaneo, di Duccio Galimberti e della banda partigiana dei Cervi nella lettera di Livio Berardo

Riceviamo e pubblichiamo, da Livio Berardo.

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Da alcuni anni molte sezioni Anpi anche della nostra provincia organizzano la sera del 25 luglio una “pastasciutta antifascista” per ricordare quella offerta dalla famiglia Cervi ai compaesani di Campegine e Gattatico per festeggiare la caduta di Mussolini nell’estate del ‘43.

Quel pasto fu consumato assai tardi. Solo alle 22.45 il ministro della Real Casa, il duca Acquarone, aveva portato all’EIAR (l’emittente radio ufficiale) il noto comunicato: «Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini…» con il conferimento dell’incarico di formare un nuovo governo a un’altra eccellenza, il maresciallo Pietro Badoglio.

La sera dopo non sarebbe più stato possibile fare festa. Nell’ora di cena del 26 luglio sui muri della città venivano affissi i manifesti con il testo della circolare preparata dal Capo di stato maggiore dell’esercito, generale Mario Roatta, che proibiva gli assembramenti di più di tre persone e ordinava alle truppe: «Muovendo, contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta».

Il re e Badoglio, d’accordo con la maggioranza del Gran consiglio del fascismo che aveva sfiduciato il duce, avevano in mente non una svolta democratica, bensì una continuità di regime senza Mussolini, che tenesse buoni i tedeschi («La guerra continua») e al contempo consentisse di trattare segretamente con gli angloamericani, ormai ben piantati in Sicilia. Roatta di suo ci metteva una particolare ferocia, già dimostrata nella guerra di Spagna e soprattutto nella repressione della resistenza jugoslava («Si ammazza troppo poco» era la conclusione dei suoi telegrammi).

Fra il 27 e il 28 luglio l’esercito uccise un’ottantina di civili inermi: i massacri più pesanti si verificarono a Bari (20 morti) e non lontano dalla cascina Cervi alle Officine di Reggio Emilia (9 vittime, fra cui una donna incinta). Gli operai delle Officine reggiane manifestavano perché si stipulasse la pace, i cittadini di Bari sfilavano davanti al carcere chiedendo la liberazione dei detenuti politici. Se la gestione dell’ordine pubblico era nelle mani di Roatta, che a settembre consegnerà Roma ai tedeschi, l’eventuale liberazione dei prigionieri politici dipendeva da chi li aveva fatti arrestare, il capo della polizia Carmine Senise. Costui aspettò che il governo sopprimesse il Tribunale speciale. Poi iniziò le scarcerazioni con il contagocce.

I comunisti uscirono solo a fine agosto, quando Bruno Buozzi, nominato commissario liquidatore dei sindacati fascisti, aveva ottenuto che al suo fianco ci fossero un cattolico e il comunista Giovanni Roveda. Non furono comunque rilasciati quelli che in Spagna avevano combattuto nelle Brigate internazionali o in Francia avevano spalleggiato i maquisards; così rimasero nelle carceri come la Castiglia o il S. Caterina di Fossano gli anarchici, i partigiani jugoslavi e francesi, condannati dai tribunali militari. Rodolfo Morandi e Bruno Fanciullacci, scarcerati prima del 25 luglio per fine pena, il 26 parteciparono nelle loro città a manifestazioni per la liberazione dei perseguitati politici.

I cortei si svolsero nella mattinata, prima che scattasse la repressione. Nelle stesse ore a Cuneo, davanti a una grande folla presente per il mercato del bestiame e radunata da un’auto con altoparlante, Duccio Galimberti tenne dal balcone del suo studio un breve, ma infiammato discorso, la cui sintesi era che purtroppo la pace non era imminente.

Dieci anni fa da appunti e carte coeve dell’Archivio di Casa Galimberti avevamo ricavato questi passaggi: «La guerra dovrà quindi continuare, ma non sarà quella di cui parla il maresciallo Badoglio: sarà guerra di Liberazione contro i tedeschi e i fascisti. Pensate: come è possibile che una nazione la quale per vent'anni ha sopportato le continue violazioni dei diritti e della dignità umana da parte di una dittatura, fino alla proclamazione delle guerre di aggressione, in poche ore ne venga liberata dall'alto da chi fino a ieri spartiva il potere con Mussolini»?

Qualche giorno dopo Duccio scriveva a un amico: «Alle 13 del 26 luglio il popolo italiano aveva già cessato di sapere che fosse la libertà. Il desiderio di tutelare l'ordine pubblico spinto al parossismo, l'applicazione pedestre e priva di buon senso degli ordini superiori, l'eccitazione e l'imbaldanzimento di comandanti inesperti e senza autorità personale sulle truppe hanno ripiombato il paese in uno stato di costrizione maggiore ancora di quello prima».

È luogo comune che il totalitarismo fascista non sia stato così devastante come quello nazista, perché costretto a spartire il potere con Chiesa e monarchia. In verità la Chiesa esisteva anche in Germania, anzi accanto a quella cattolica prosperava quella luterana. Il Vaticano aveva firmato dei concordati tanto con il governo di Mussolini quanto con quello di Hitler. Di fronte alle violazioni vi furono proteste forse persino più forti oltralpe (pensiamo alla battaglia del vescovo von Galen contro il progetto di eliminazione dei minorati psichici e dei disabili). L’unica diversità di sistema sta dunque nel ruolo della monarchia, che per 21 anni avallò tutte le scelte di Mussolini e se ne staccò nell’estate del ’43 con il fondamentale obiettivo di salvare se stessa, come denunciò Galimberti.

Duccio era anche consapevole dei sacrifici che gli italiani avrebbero dovuto affrontare: «Il prezzo da pagare sarà alto e andrà ad aggiungersi a quelli già pagati dall'inizio della guerra, anzi i patrioti saranno costretti a prendere le armi non solo contro i tedeschi, ma anche contro i fascisti».

Galimberti metteva in conto il sacrificio della propria vita, cosa che si verificherà nella notte fra il 3 e il 4 dicembre 1944: catturato il 28 novembre a Torino, prelevato dall’Ufficio politico investigativo fascista di Cuneo, torturato e ucciso, veniva abbandonato sul ciglio della strada per Centallo. Quasi contemporaneamente si compie il destino della banda partigiana dei Cervi: il 25 novembre la GNR di Reggio Emilia, guidata dal locale UPI, circonda la cascina di Gattatico e, malgrado l’accanita resistenza, cattura i sette fratelli più un disertore che avevano accolto nella formazione. Dopo un mese di carcere saranno fucilati senza processo al poligono di tiro di Reggio.

Tanto a Cuneo quanto a Reggio a sparare non sono tedeschi, bensì fascisti. Vendicavano così lo smacco patito il 25 e 26 luglio 1943. Il fascismo infatti non era finito con la caduta di Mussolini, anche perché il re e Badoglio nei 45 giorni di tira e molla nulla avevano fatto per allontanare dai posti di responsabilità gli elementi chiave del regime.

comunicato stampa