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Farinél | 21 luglio 2024, 18:06

Farinél/ Le grandi persone sono quelle in grado di far sentire migliore chi hanno vicino

Targato Cn e La Voce di Alba hanno fatto incetta di riconoscimenti al Premio giornalistico del Roero. Nonostante la lunga carriera nella carta stampata, online e nella radiofonia, è una prima volta per il nostro “Farinél”, con una dedica doverosa al protagonista dell’articolo vincitore

Farinél/ Le grandi persone sono quelle in grado di far sentire migliore chi hanno vicino

Di centinaia di foto scattate in questi giorni, in Kenya, ne ho scelta una. Non è bella, anzi è mossa, è stata immortalata due sere fa sulla panchina della guest house di North Kinangop. Bruno Frea mi aveva appena detto di quanto mi ritenesse una persona generosa. Lui a me. A questa foto sarò legato per sempre perché mi ricorderà ogni volta un bel momento di vita.

Sono tornato a casa da poche ore, tempo di disfare le valigie, di raccontare alcuni episodi di questi giorni ai miei genitori e agli amici che mi aspettavano ed eccomi qui a scrivere il mio Farinél con le riflessioni dal Kenya, l’ultimo prima di tornare ai temi classici di attualità di Langhe e Roero che solitamente tratto in questa rubrica.

In fondo di Roero parlerò comunque perché venerdì 19 ho vinto il premio giornalistico del Roero per un articolo pubblicato sulla pagina torinese del Corriere della sera e poi rilanciato sull’edizione nazionale con un numero di lettori unici tra i più alti nel mese di agosto 2023 per un articolo pubblicato online in Italia.

Di Roero scrivo da quasi 30 anni, da quando nel 1996, a 14 anni iniziai a occuparmi di sport per il Corriere delle Langhe e del Roero scrivendo proprio della squadra che portava il nome e il simbolo della sinistra Tanaro, con sede, in quegli anni, tra Priocca e Magliano Alfieri.

Nonostante le migliaia di articoli scritti mai sono stato preso in considerazione per il premio giornalistico del Roero, cosa che mi aveva portato a farmi tante domande.

Nel frattempo, sono stati premiati ottimi giornalisti, ma anche personaggi che con il giornalismo c’entravano poco o nulla e il mio momento mai era arrivato, nonostante dal giornale locale fossi passato a un quotidiano con diffusione regionale e nazionale.

Non aver vinto il premio giornalistico del Roero, nel corso del tempo, è diventato quasi un vanto e un tratto distintivo per il giornalista, il sottoscritto, che più penso abbia scritto di Sinistra Tanaro negli ultimi 20 anni.

Per riconciliarmi con questo premio poteva succedere una cosa soltanto: trovare una motivazione più grande per riceverlo rispetto alla voglia di rifiutarlo e questa motivazione me l’ha data Bruno Frea, l’urologo che mi ha cambiato la vita nell’ultimo anno facendomi conoscere la missione di North Kinangop in Kenya e il direttore don Sandro Borsa, un grande amministratore con un grande cuore.

Bruno Frea è entrato nella mia vita nel momento più difficile dei miei 41 anni su questo pianeta, e come fanno i grandi uomini ha riflesso la propria grandezza su di me che non stavo vivendo un rapporto felice con l’autostima e con la fiducia in me stesso. Gli uomini migliori sono così, fanno sentire migliore chi hanno intorno e io avevo un estremo bisogno di questo.

Ecco perché, quando presidente Giovanni Negro e il direttore del premio, l’ottimo giornalista Gian Mario Ricciardi, mi hanno annunciato di avere vinto con l’articolo dedicato a questo grande uomo, è come se si fosse rotto un argine ed è come se improvvisamente mi fossi riconciliato con quel riconoscimento che non avrei voluto ritirare e che invece sono stato davvero orgoglioso di ricevere.

Al momento in cui scrivo non so quale sia il premio in denaro previsto, ma so che lo destinerò alla mia prossima missione in Kenya e che non potrebbe esserci destinazione migliore.

Il mio articolo, hanno scritto i conferitori, ha fatto scoprire che il Roero non ha solo vini eccelsi, ma un grandissimo cuore e il grandissimo cuore è quello di un uomo di 78 anni che tre volte l’anno per quasi due mesi ogni dodici, a proprie spese, lascia la casa di Corneliano per operare in uno dei luoghi più poveri del Mondo, con gli specializzandi più meritevoli.

L’ho visto all’opera ed è commovente ciò che fa, un esempio per questi giovani che in Kenya imparano a lavorare in condizioni estremamente difficili e completamente diverse da quelle degli ospedali italiani.

Ci sono persone che insegnano con le parole, altre con gli scritti, Bruno Frea insegna con gli abbracci e per questo vorrei chiudere pubblicando nuovamente l’articolo che ha vinto il premio giornalistico del Roero e che rende la grandezza di questo personaggio, pubblicato dal Corriere della Sera un anno fa.

 
Il luminare dell’urologia Bruno Frea: “Non capita tutti i giorni di poter operare un uomo leopardo. A me è successo in Kenya”

Oltre un giorno di viaggio, tre aeroporti per arrivare a Nairobi, altre quattro ore a bordo di uno scomodo fuoristrada ed ecco, finalmente, spuntare la sagoma dell’ospedale di North Kinangop. Siamo in Kenya lontano dall’immagine edulcorata dei tour operator, a 2.500 metri d’altezza, dove piove un giorno sì e l’altro pure. Un ospedale costruito con mattoni (pochi) e sogni (tanti) dalla diocesi locale di Nyeri, con l’arcidiocesi di Padova. Il nosocomio di North Kinangop è diventata la seconda casa dell’urologo Bruno Frea. Qui si reca tre volte l’anno partendo dal suo Roero dove era nato nel febbraio 1946 e dove è tornato dopo una carriera di primo livello che lo ha portato a essere considerato un luminare dell’urologia a livello mondiale.

Frea, la prima domanda non può che essere: a 77 anni, chi glielo fa fare?

Quando ami il tuo lavoro la pensione è una condanna. Nel 2016, al compimento dei 70 anni, da direttore di urologia dell’ospedale Molinette è stato il mio turno. Quattro anni prima, mentre ero direttore della Clinica Urologica di Udine, don Sandro Borsa mi aveva parlato, con una passione contagiosa, di questo piccolo ospedale nel cuore del Kenya dove il Cuamm di Padova organizzava periodicamente missioni con equipe di medici, ma senza la figura dell’urologo. Mi ero avvicinato alla medicina nel mito del dottor Albert Schweitzer, Nobel per la pace, fondatore dell’ospedale di Lambaréné e il richiamo dell’Africa è stato irresistibile. Decisi di partecipare alla prima missione, ora ho appena concluso la ventesima.

Perché si è specializzato in urologia?

È stata la vita a spingermi. Nel 1971 mi sono laureato in medicina con l’unica certezza di voler diventare un bravo chirurgo, proprio in quei giorni a mio padre venne diagnosticato un tumore al bacinetto renale. La scelta a quel punto divenne facile, nel 1973 diventai urologo con il sogno di poter curare tante persone come mio padre.

Come riesce dopo 50 anni ad avere ancora questo entusiasmo?

So che non si dovrebbe, ma rispondo alla domanda con una domanda: esiste qualcosa di più soddisfacente per un uomo rispetto al prendersi cura di un altro uomo? A mio parere no.

Torniamo alla prima missione a North Kinangop, l’ospedale era come lo aspettava?

Pensando al Kenya mai avrei creduto di dover portare con me ombrello e impermeabile. Il contesto è di estrema povertà, le persone vivono in baracche una vita di pura sussistenza, ma dignitosa. In questo ambiente ciò che è stato fatto da don Sandro dal 2004 e prima da don Giovanni Della Longa è straordinario e commovente. Padiglione dopo padiglione oggi il nosocomio conta 300 posti letto, con dialisi, terapia post intensiva e quattro sale operatorie, più tre in costruzione.

Come si mantiene la struttura?

North Kinangop è l’esempio perfetto di economia circolare. L’ospedale dispone di un piccolo allevamento da cui arrivano latte, uova e carne utilizzati per i pasti dei pazienti e del personale. Il resto arriva dai campi: siamo sull’equatore, quindi non esistono le stagioni e si semina in continuazione. Per riscaldarsi non mancano i boschi, ogni anno è sufficiente abbattere 130 alberi (subito ripiantati) per scaldare la struttura. Nel perimetro dell’ospedale si trovano una macina per le pietre, una cava, falegnameria, carpenteria, fabbri e una panetteria che il mercoledì sforna la pizza.

Ci può raccontare come si svolgono le missioni?

Durano due settimane, solitamente l’equipe è formata da 3 o 4 urologi o specializzandi in urologia oltre al sottoscritto. Si parte il sabato, si arriva domenica nel tardo pomeriggio. Dal lunedì inizia la missione vera e propria. Dopo la riunione plenaria con don Sandro, con i medici locali, gli infermieri e gli studenti di scienze infermieristiche inizia la fase ambulatoriale in cui vengono programmate le operazioni più urgenti da effettuare nella prima settimana, per seguire parte del decorso post-operatorio.

Da quando iniziano le operazioni?

Dal martedì alle 7.30, ogni giorno, ininterrottamente fino alle 19.30. Solitamente portiamo a termine 120 visite e una cinquantina di operazioni in due settimane.

Non ci si riposa mai?

La domenica solitamente è libera. Una delle mete più gettonate è il Masai Mara national park, sono necessarie 5 ore e mezza di Jeep, ma lo spettacolo della Savana ripaga di ogni sforzo. Nella prossima missione di luglio stravolgerò un po’ la routine perché partirò il giovedì per risparmiare sul biglietto aereo.

Vuole dirmi che lei va in Kenya a operare gratuitamente e si paga pure il viaggio?

Certo, ma il vitto e l’alloggio nella foresteria di don Sandro sono gratuiti, come i sorrisi e la gratitudine della gente di North Kinangop. Una delle ultime cose che ho fatto da primario di urologia della Molinette è stato ottenere dal Consiglio della scuola di specializzazione la copertura del viaggio per gli specializzandi, in quanto missioni come questa sono a tutti gli effetti esperienza formativa fuori sede.

Perché è importante per un giovane medico partecipare?

Innanzitutto, si operano persone da zero a cento anni. Suggerisco la missione a tutti gli specializzandi per capire che non esiste solo la nostra medicina tecnologica, che è fondamentale imparare ad auscultare i pazienti e a fare la giusta diagnosi. Gli esami in Kenya sono carissimi in rapporto al costo della vita e servono solamente per confermare la diagnosi. Cambiano anche le patologie: in Kenya, ad esempio, abbiamo avuto un solo caso di calcolosi renale, che in Italia è diffusissimo. Poi, non è che capiti tutti i giorni di poter operare uno degli ultimi uomini leopardo.

Venti missioni, oltre tremila visite e più di mille operazioni, quali ulteriori obiettivi si è posto?

Per un medico che ha sempre lavorato in ambito universitario non può esserci nulla di più appagante di formare un giovane collega. Nel mio caso è il dottor Joseph Kago. In Kenya, un medico, dopo la laurea, prima della specializzazione, deve lavorare due anni nelle periferie di Nairobi imparando a operare in condizioni di povertà estrema. Ora Kago si sta specializzando e fra tre anni, finalmente, North Kinangop avrà un responsabile di urologia.

Fra tre anni lei ne avrà ottanta, sarà finalmente ora della pensione?

Da buon roerino dico “Esageruma nen”, magari mi concederò qualche domenica in più al Masai Mara per vedere il tramonto, ma per la pensione c’è sempre tempo.

Marcello Pasquero

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