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Attualità | 26 giugno 2024, 07:22

Donne affogate in Tanaro e debitori dileggiati in catene: così si praticava la giustizia nella Alba delle cento torri

L’Associazione Parusso dedica un incontro al corpo di norme contenute nel "libro della catena". Negli statuti del XV secolo tre diversi modi per irrogare la pena capitale, ma anche l’istituto della legittima difesa e una speciale attenzione ai tempi del processo

Il "Libro della catena" fotografato da Antonio Buccolo

Il "Libro della catena" fotografato da Antonio Buccolo

La decapitazione, l’impiccagione e l’annegamento in Tanaro. Queste le tre modalità con le quali l’autorità del comune di Alba poteva erogare la pena capitale nelle diverse fattispecie di delitti per i quali i suoi quattrocenteschi statuti la contemplavano: del torto commesso dall’assassino si faceva così giustizia inviando il colpevole alla ghigliottina mentre la via del fiume e dei suoi gorghi era la terribile fine che poteva toccare a una donna ritenuta colpevole di tre atti d’adulterio. Alla morte veniva poi condannato l’uomo che si fosse reso responsabile di stupro commesso con particolare violenza. 

Per molti versi stupefacenti, se viste con gli occhi di oggi, quelle citate sopra sono soltanto alcune delle centinaia di disposizioni contenute nelle pergamene del “Libro della catena”, pesante volume dalla copertina in cuoio borchiata rappresentante il corpo di norme sulla base del quale veniva esercitata la giustizia sul territorio del libero Comune di Alba nel secolo che avrebbe portato alla scoperta delle Americhe. 

Una preziosa testimonianza sulla storia della città (il volume deve il suo nome alla robusta catena di ferro alla quale era saldamente ancorato all’albo pretorio comunale, affinché il potesse essere consultato ma non portato via), che fu al centro del lavoro di studio avviato da Giulio Parusso e ora portato avanti dall’associazione che del compianto storico perpetua la passione per l’indagine delle vicende sulle quali le nostre comunità poggiano le proprie basi. 

Gli Statuti di Alba del secolo XV: il Libro della catena” è così divenuto il titolo scelto per l’incontro a ingresso libero che il sodalizio albese ha organizzato per questo venerdì 28 giugno, alle ore 17.30 nella sala convegni di Palazzo Banca d’Alba, in via Cavour

Grazie agli interventi della docente universitaria Blythe Alice Raviola, dell’avvocato Lorenzo Paglieri e del collega Roberto Ponzio – la moderazione è affidata all’ingegner Gobino – si approfondiranno i contenuti di quella che all’epoca era la carta fondamentale del comune, espressione tipica dell’autonomia di cui questi godevano nel sistema delle istituzioni medievali. 

Tante le curiosità che i quattrocenteschi statuti albesi celano nei cinque tomi in cui erano organizzati: un primo paragonabile a una moderna costituzione, con prescrizioni riguardanti anche la nomina del podestà o le funzioni del vicario. Nel secondo libro – ne parlerà l’avvocato Paglieri – era trattata la giustizia "civile", con le norme del diritto di famiglia, quelle riguardanti le compravendite, quelle inerenti gli affitti. Quarto e quinto libro erano invece riservati, rispettivamente, ai temi della polizia urbana e della polizia rurale, mentre il terzo tomo era quello forse più temuto, inerente l’ambito penale. 

A parlarne al pubblico albese sarà l’avvocato Roberto Ponzio, che anticipa: "Curioso è scoprire come, per iniziare, le norme si ripartissero in tre tipologie: quelle concernenti i delitti relativi alla sicurezza e all’ordine pubblico, quelli contro la persona e quelli contro il patrimonio. Tra i primi figura tutta una serie di norme tra le quali, ad esempio, il divieto di ospitare latitanti o ladri, di ingaggiare risse o di bestemmiare. Era previsto l’istituto del porto d’arma, che riguardava però spade, pugnali e coltelli. Era contemplata una graduazione dei reati a seconda delle circostanze: per le risse, ad esempio, rilevava che fossero accadute di giorno o di notte, a mani nude o mediante l’uso di bastoni. Bestemmiare poteva costare 20 soldi di multa se ad essere invocati impropriamente erano Dio, la Madonna o il patrono, 5 soldi per altri santi". 

Particolarmente dura si presentava la vita di servi e meretrici. Riguardante i primi era la norma che interveniva nel caso una cameriera avesse introdotto un uomo in casa del padrone. Per lei era prevista una multa da 10 lire, ammontare non indifferente per il tempo. Se la donna non poteva pagare si disponeva che le si fosse tagliato il naso. Identica multa, ma punizione diversa (il taglio di un piede o una mano) se a fare entrare in casa una persona dell’altro sesso fosse stato invece un servo.

Passando invece alle prostitute, a loro era negata la possibilità di bere o mangiare nelle osterie della città, pena la multa di un soldo a carico della donna, di 5 soldi a carico dell’oste o dell’ostessa che avessero contravvenuto alla misura. Le stesse prostitute non potevano poi mostrarsi in pubblico se non nei giorni di fiera o di mercato, in questi casi contraddistinte dall’indossare un mantello per segnalasse in modo incontrovertibile la loro condizione. Chiunque poteva peraltro denunciare la violazione di tale obbligo, ottenendo il diritto a un quarto della multa incassata. Era poi vietata e sanzionata con pesanti multe l’attività dei bordelli privati, ma non quella del "postribulum", istituzione pubblica dettagliatamente regolamentata. 

Detto più su dei reati capitali, si può aggiungere come chi fosse sfuggito alla condanna avesse vita più difficile rispetto alla confisca di beni, spesso alternativa alla prima. Come era previsto l’istituto della legittima difesa, che agiva anche in favore dei familiari.  

Si apprende poi che l’ingiuria veniva sanzionata con un fiorino di multa, ma se entro dieci giorni si provava che l’insulto corrispondeva al vero la multa veniva annullata. Oppure che quella che oggi è conosciuta come ricettazione comportava una multa, che si poteva però evitare restituendo il bene e provato di avere agito in buona fede. 

I casi più gravi di furto prevedevano come pena nei confronti del colpevole il taglio della mano, mentre i recidivi e in particolare chi fosse giudicato colpevole di almeno tre furti per un valore complessivo del bene sottratto pari a dieci ducati poteva essere impiccato. 

Alla particolare gogna della "catena del pellerino", attaccata presso il municipio, era invece destinato il ladro che non avesse potuto pagare la multa a lui comminata e che così veniva esposto al pubblico ludibrio fuori dal palazzo del comune. 

"Specifiche norme – aggiunge ancora l’avvocato Ponzio – riguardavano anche quella che oggi riconosceremmo come procedura penale: i processi dovevano arrivare a sentenza entro tre mesi dal loro avvio, che si riducevano a uno in caso di carcerazione preventiva dell’imputato. Il diritto di difesa era riconosciuto come era previsto il pignoramento dei beni del condannato sino a quando non si fosse pagata la multa comminata. Ai pubblici funzionari era intanto fatto divieto di ricevere regalie, come non potevano incassare direttamente quando dovuto all’amministrazione della giustizia, attiva con un apposito sportello con un determinato orario. Quello che è certo – conclude con una battuta l’avvocato Ponzio – nel Quattrocento non eravamo costretti ad andare ad Asti per vedere regolata la giustizia nella nostra città". 

Ezio Massucco

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