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Attualità | 15 dicembre 2018, 15:00

A tu per tu con Gianni Savio, manager del team “Androni Giocattoli Sidermec”

Alla guida di grandi ciclisti, è stato recentemente in visita al Museo della Bicicletta di Bra

Gianni Savio

Gianni Savio

Capelli d’argento e garbo d’oro.

Gianni Savio a settant’anni è uno dei più stimati team manager dello sport a pedali che ha saputo tramutare la sua passione per il ciclismo in uno stile di vita.

Con tanta professionalità e dedizione, porta avanti un lavoro che gli ha regalato enormi soddisfazioni. Lascia che la voglia di vincere guidi il talento dei giovani, asseconda gli istinti degli scalatori, cuce le emozioni dei gregari.

Ed i ragazzi ricambiano con favolosi successi: nel 1994 Nelson “Cacaito” Rodríguez divora le strade del Tour de France, mentre nel 2002 Santiago Botero scopre la gioia di vincere un mondiale a Zolder. Un mese fa ha festeggiato il primato del team nella classifica a squadre della Ciclismo Cup.

Oggi, la maglia celebrativa del “tricolore”, prodotta in edizione limitata dal maglificio Rosti che fornisce l’abbigliamento al team ed esibita sul palco dell’ultimo Giro di Lombardia, ha trovato posto al Museo della Bicicletta di Bra.

La visita alla permanente allestita nei locali della Bra Servizi di via Monviso, ha guidato Gianni Savio in un suggestivo revival, tra articoli stampa seppiati e cimeli straordinari.

Con noi ha voluto chiacchierare per raccontare quei tempi, i suoi corridori e per ricordare i suoi trionfi. Ci diamo del “tu”.

Perché la passione per il ciclismo?

“Il ciclismo è uno sport di famiglia. Mio nonno materno, Giovanni Galli, è stato campione italiano degli indipendenti ed ha corso ai tempi di Girardengo. Ho ereditato da lui questa passione.

Non ho praticato il ciclismo, perché, da ragazzo, giocavo a calcio nella squadra della scuola e ho continuato a farlo anche a livello dilettantistico con il Susa e con il Vallorto di Cuorgnè”.

Com’è iniziata la tua esperienza di team manager?

“Mi sono laureato in Economia e Commercio e sono entrato a lavorare nell’azienda di famiglia. L’impresa Galli è stata fondata da mio nonno e produceva accessori per biciclette. Ad un certo punto, ho capito che non si poteva competere con dei colossi come Campagnolo, Shimano e tutti quelli che sarebbero venuti dall’Oriente.

Così, ho trasformato l’azienda, prima in commerciale e poi in agenzia pubblicitaria, cominciando a trovare sponsorizzazioni. Al contempo, nel 1985, ho fatto il corso da team manager ed ora eccomi qui”.

Qual è la più grande soddisfazione che ti ha dato questo sport?

“È difficile dirlo, perché ci sono state tante giornate particolarmente entusiasmanti. Qui al Museo della Bicicletta di Bra c’è la maglia di Andrea Tafi, un corridore che ho lanciato tra i professionisti nel 1991 assieme a Leonardo Sierra, un venezuelano che ho scoperto in un pueblo sperduto delle Ande e che si è aggiudicato la tappa dell’Aprica, al suo primo Giro d’Italia, poi vinto da Gianni Bugno.

Vedo anche una maglia della ZG Mobili Selle Italia, una squadra che ho diretto per quattro anni: con Nelson “Cacaito” Rodriguez vincemmo una tappa regina del Tour de France nel 1994.

Per me si tratta di due episodi importanti ai quali aggiungo il successo di Santiago Botero nella prova a cronometro dei campionati del mondo su strada del 2002, quando ero commissario tecnico della Colombia, l’unico titolo iridato vinto da un Paese sudamericano.

Facciamo pokerissimo con la maglia di Franco Pellizzotti, un corridore che ho rilanciato nel 2012 e che, alla prima corsa con la nostra divisa, vinse il campionato italiano”.

Hai rilanciato anche Michele Scarponi che oggi non c’è più. Che ricordi hai di lui?

“Con Michele si era instaurato non solo un rapporto professionale, ma anche di vera amicizia, sono ancora in contatto con la famiglia e la sua è stata una gravissima perdita (Michele Scarponi rimase vittima di un incidente stradale la mattina del 22 aprile 2017, investito da un furgone, mentre si preparava al Giro d’Italia, sulle strade della sua Filottrano, ndr).

Mi è sempre stato riconoscente per avergli dato fiducia in un momento delicato della sua carriera e questa fiducia l’ha ripagata vincendo con noi tre tappe al Giro d’Italia e la Tirreno-Adriatico”.

Qual è stato il momento più difficile da dover superare?

“Di momenti difficili ne ho superati! Credo di avere quella determinazione e quell’entusiasmo che mi hanno portato a superare tante avversità. Un momento veramente difficile è stato l’anno scorso, quando non siamo stati invitati al Giro d’Italia.

In quell’occasione, rilasciai dichiarazioni polemiche, dicendo che per me era una grave ingiustizia, perché meritavamo di esserci al posto di altre squadre. Purtroppo sono subentrati fattori di carattere commerciale. Capisco che lo sport sia ormai diventato un grande business, però credo che debbano essere contemperate le esigenze del business ai valori sportivi.

In quel caso, i valori sportivi erano stati assolutamente annullati. Quell’ingiustizia, che provavo in prima persona, era condivisa da tutti gli sponsor della nostra squadra, i più importanti dei quali avevano deciso di ritirarsi a fine stagione per quello che sentivano come un tradimento.

La delusione era tale che in quel periodo dissi pubblicamente che avremmo valutato se continuare con il progetto della squadra o chiudere con una grande festa dell’attività. Tuttavia, la voglia di superare questa avversità ed ingiustizia mi ha spinto a continuare”.

Il corridore che avresti voluto nella tua squadra?

“Non c’è, perché la nostra squadra ha sempre avuto per caratteristica il lancio di giovani. La mia più grande passione è sempre stata quella di andare a scoprire degli sconosciuti e lanciarli tra i professionisti. Siamo ed eravamo l’Atalanta della Serie A, per stabilire un paragone”.

Il posto più bello dove ti ha portato il ciclismo?

“Ne ho visti talmente tanti! Posti incantevoli, ma ero così preso dalla tensione della corsa che non ho potuto gustarli. Sono stato alle Olimpiadi di Atene 2004 nella veste di Commissario Tecnico della Colombia ed alle Olimpiadi di Pechino 2008 e di Londra 2012 come ct del Venezuela.

La Colombia, tra mille contraddizioni ed il Venezuela sono paesaggisticamente splendidi”.

Facci il nome di un giovane ciclista italiano di prospettiva?

“Gianni Moscon ha dimostrato di essere un ragazzo in crescita. In Italia è considerato l’erede di Vincenzo Nibali, perché, al momento, un altro Vincenzo Nibali, non c’è. Speriamo che Vincenzo continui sui livelli a cui ci ha abituati ancora per qualche anno”.

Che cosa ne pensi del doping?

“È una grande piaga. Il ciclismo è lo sport che ha combattuto il doping più di ogni altro. Noi abbiamo vissuto gli anni bui, tra i dieci ed i vent’anni passati e, in certi casi, ci sono state delle esagerazioni.

Come sempre avviene, gli sport più potenti hanno saputo nascondere questo fenomeno, invece il ciclismo è stato preso come capro espiatorio per tutta una serie di episodi passati e fondati, che sono stati assolutamente negativi.

Adesso il doping si è molto attenuato tra i professionisti, ma esiste ancora, soprattutto, nelle categorie giovanili e questo è un dramma. I dirigenti o i tecnici che aiutano con il doping i ragazzi in fase di crescita e formazione fisica, a mio avviso, sono dei criminali. E meno male che il doping è diventato reato non solo sportivo, ma penale!

Parlando della mia squadra, nel 2015, proprio in funzione del passato, ho introdotto un regolamento sanitario interno che prevedeva, in caso di coinvolgimento in vicende di doping, una penale di centomila euro.

L’atto è stato firmato da tutti i corridori in uno studio notarile, quindi davanti ad un ufficiale giudiziario, per una maggiore valenza. Nonostante questo, in quella stessa stagione, due corridori risultarono positivi all’Epo”.

Il 2018 è stato un anno eccezionale, condito da 36 vittorie e titoli importanti. Bilanci e previsioni?

“L’Androni Giocattoli Sidermec ha chiuso al terzo posto del podio la classifica dell’Uci Europe Tour, il calendario che raggruppa tutte le corse professionistiche del vecchio continente escluse, ovviamente, quelle World Tour.

La conquista dello scudetto tricolore e del podio europeo, entrambi per il secondo anno consecutivo, confermano la validità del progetto iniziato con il lancio di giovani quali, per citarne alcuni: Egan Bernal, Ivan Sosa, Davide Ballerini, Fausto Masnada e Andrea Vendrame.

Il progetto continuerà naturalmente con il lancio di altri giovani anche nella prossima stagione”.

Sogno nel cassetto?

“Riuscire a trovare le risorse necessarie per poter partecipare ai grandi giri, cioè entrare nel World Tour.

Probabilmente sarà un sogno che rimarrà sempre nel cassetto, perché ci vogliono budget elevatissimi. La sopravvivenza della nostra squadra è data dagli sponsor che tassellano la nostra maglia.

Scherzando, dico che la nostra maglia è un giornale, ma la continuità, che ormai dura da 22 anni, è garantita da questo giornale. Voglio ancora fare una precisazione: per essere in sintonia con i tempi che viviamo, la nostra società ha cambiato assetto.

Oggi abbiamo un responsabile finanziario; io sono il responsabile sportivo; Marco Bellini, il mio socio, ex corridore ed ex direttore sportivo, si occupa del marketing come responsabile.

Nonostante questa trasformazione, anche se dovesse riuscirmi di entrare nel World Tour, vorrei sempre mantenere, in parte, quell’entusiasmo del ciclismo romantico che vediamo in tutte queste maglie”.

Che messaggio diamo ai giovani?

“Il ciclismo è meraviglioso, uno stile di vita. È uno sport anche di sofferenza, ma è chiaro che non deve essere interpretato solo in questo senso. Proprio la vita insegna che bisogna saper superare le avversità, le sofferenze e, per questo, il ciclismo è una grande scuola di vita”.

Più chiaro di così!

Silvia Gullino

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