- 02 ottobre 2013, 08:27

Sarà il proliferare dei "non luoghi" che a quelli del cuore ci affezioniamo sempre di più ?

Se chiudo gli occhi, li vedo ancora, i cortili dove giocavo da bambina.

C'era quello della scuola elementare, ma le maestre ci portavano con parsimonia, perché non ce n'era mai il tempo. “La bella lavanderina”, “strega tocca colore”, “bandiera”: ci trastullavamo con giochi antichi, memoria delle nonne e bisnonne. Vietato sporcarsi e rimediare anche solo un ciuffetto di capelli sudati.

C'era quello di casa, piccolo, pochi metri quadrati. Ci andavo con l'amichetta che abitava al primo piano. Due bambine, svaghi tranquilli e silenziosi, per non disturbare i condomini. Non ricordo come riuscissimo a far passare il tempo.

C'era quello della casa in campagna della famiglia da parte di madre, vicino a Torino. Prozii ottocenteschi che parlavano solo in dialetto, un piemontese arcaico che non capivo, ma con me si sforzavano e tiravano fuori le poche parole in italiano imparate durante un breve ricovero in ospedale, “che lì ci sono tanti meridionali”. Lui grande e grosso con i baffoni che mi facevano paura e la moglie minuta, il viso una ragnatela di rughe e una vocina che chiamava le galline, popolavano un cortile sporco come si usava una volta, con tanti odori e tanti animali. C'erano un pozzo e un caco gigantesco, sul quale tentavo di arrampicarmi. Bambina di città, non ci sono mai riuscita.

C'era quello della casa in campagna della famiglia da parte di padre, nei pressi del lago Maggiore. Ci andavo pochi giorni all'anno, quando si riunivano tutti i parenti, anche quelli emigrati in Argentina e in Inghilterra. Con la cuginetta britannica, che parlava un italiano buffo e aveva una pazienza infinita, si fingeva di avere un negozio. Una vecchia panca sulla quale mettevamo oggetti spaiati, i cuginetti maschi che stavano al gioco pochi minuti e poi si stufavano, e andavano a giocare con la palla. Per me era la felicità.

Se chiudo gli occhi, li vedo ancora, gli angoli di Torino, scoperti, vissuti negli anni dal liceo all'università. Ce ne sono tanti, troppi per poterli elencare. Perché poteva essere il luogo, lo spazio, il punto (un bar, una piazza, un negozio, un parco, una fermata del tram, un pianerottolo, la facciata di una casa) che solo perché ero lì in quel momento mi faceva sentire bene. Oppure perché era la persona che mi accompagnava che mi faceva sentire bene in quel bar, in quella piazza, in quel cinema, in quel museo. Che senza, non ci sarebbe stata la stessa sensazione.

Se chiudo gli occhi, li vedo ancora i mille luoghi dove ho trascorso le vacanze, con gli amici fino ai trent'anni. Lì era l'età a fare la differenza. In alcuni ci sono tornata, ma non era più la stessa cosa. Stesso posto, il mare uguale e identico, medesimi granelli di sabbia, le alghe sparpagliate sulle rocce rinsecchite a mucchi, sempre quelle. Eppure l'incanto era sparito.

E allora ho capito che i posti del cuore, con il passare del tempo, si trasformano nei posti della mente. Che tiriamo fuori quando ne abbiamo bisogno nei momenti di scoramento. Un comfort-food dell'animo. Una stampella per la tristezza. Cristallizzati nel loro istante migliore, per l'eternità.






Monica Bruna