IL FILM
Dopo tanto Shakespeare, una Cenerentola e un’incongrua (ma riuscitissima) sortita nel mondo Marvel, Kenneth Branagh prende in mano uno dei più riusciti gialli di Agatha Christie e, coadiuvato alla sceneggiatura da Michael Green (Blade Runner 2049) e alle musiche dal fido Patrick Doyle, dirige un “Assassino sull’Orient Express” che, coprodotto con Ridley Scott e distribuito in Italia da 20th Century Fox, inaugura un vero e proprio franchise visto che è già in lavorazione il sequel “Poirot sul Nilo”.
Gravato dal fardello del bellissimo riadattamento di Sidney Lumet del 1974, con Ingrid Bergman e Anthony Perkins, l’attore e regista di origini irlandesi si avvale d’un cast grandioso con stelle del calibro di Johnny Depp, Penelope Cruz, Willelm Dafoe, Judi Dench e una Michelle Pfeiffer che ricorda in modo impressionante Lauren Bacall, per costruire un giallo d’atmosfera che ha nella fotografia di Haris Zambarloukos e nelle scenografie di Jim Clay il suo punto di forza tanto che nell’accuratezza dei dettagli ricorda un po’ il Titanic di Cameron.
TRAMA
Dopo un prologo in cui il celeberrimo investigatore belga Hercule Poirot dimostra il proprio acume risolvendo un caso a Gerusalemme, egli è costretto a ripartire interrompendo un periodo di riposo e, grazie all’amicizia col direttore dell’Orient Express, ottiene un posto sul prestigioso treno per la tratta Istanbul-Calais.
Durante il viaggio una slavina di neve blocca il convoglio e un uomo che Poirot aveva avuto modo di conoscere in sgradevoli (per lui) circostanze viene ucciso con una serie di coltellate al petto; vittima della sua fama e dell’amicizia col direttore del treno, egli viene chiamato a indagare sullo spaventoso crimine che, avvenuto in un ambiente pressoché isolato con l’esterno, lo porta prima a sospettare d’un misterioso omicida poi fuggito nella tormenta quindi a concludere che il pugnalatore è fra i passeggeri. Ma un’analisi più accurata dei fatti, e delle menzogne dette dai sospettati che egli interroga con elegante ma implacabile aplomb, lo porta a collegare la morte dell’ignobile Samuel Rachett al caso d’una bambina sequestrata e uccisa qualche anno prima, nesso che piegherà gli eventi verso un affascinante e quasi biblico epilogo (nella scena del disvelamento finale i passeggeri sono disposti come gli apostoli di Leonardo ne “L’ultima cena”).
LA RAPPRESENTAZIONE D’UN GIALLO
Il libro della Christie è del 1934 e, al di là del già citato capolavoro di Lumet, è ovvio che la trama di “Assassinio sull’Orient Express” sia stata già raccontata in molte riduzioni (teatrali, televisivi o cinematografiche), quindi nel prendere in consegna questo soggetto Branagh sapeva bene di non poter contare sull’effetto sorpresa dunque ha lavorato molto sulle immagini e sulle inquadrature trasformando il treno, da sempre paranoico microcosmo di nevrosi e confessionale viaggiante, in un ambiente aperto grazie a spiazzanti virate prospettiche e continui movimenti di macchina.
L’uso del CGI e la scelta del formato in 65 mm (vedi la scena della slavina) hanno permesso al regista di non cadere nel clichè dell’impianto teatrale, introducendo persino un inseguimento sulla neve non presente nell’originale e confezionando come un cartoon di pregio un giallo d’autore che altrimenti avrebbe fatto dei dialoghi e d’una certa fissità d’azione i propri motivi conduttori.
Eppure è proprio questo eccessivo modernismo, premiabile nelle intenzioni, e l’ossessiva ricerca d’uno svecchiamento che rischiano di trasformare un giallo nella sua rappresentazione: il fascino del “trompe-l’oeil” è istantaneo, se si prolunga troppo nel tempo la sua seduzione stinge in una scialba imitazione di profondità.
POIROT: “l’OMICIDIO É UN’ABITUDINE”
Il Poirot di Agatha Christie è un pingue ometto alto un metro e sessanta, con baffi curatissimi che ama sistemare tramite uno specchio portatile e radi capelli neri mantenuti da un tonico, sempre vestito impeccabilmente detesta il disordine e le armi e soffre d’un acuto mal di mare. Pur dimostrando a volte empatia, è estraneo a qualsiasi forma di sentimentalismo e fa della logica il suo unico credo; consapevole delle proprie doti non le spettacolarizza mantenendo un profilo basso come la sua mole.
Le differenze col Poirot di Kenneth Branagh saltano subito all’occhio: più giovane e fisicamente prestante, virile e in un certo senso coriaceo ma anche più incline al divismo che lo accompagna e che asseconda con apparente ironia.
Tanto sfumato dal punto di vista intellettuale quanto manicheo dal punto di vista morale (“noi sappiamo sempre cos’è giusto e cos’è sbagliato”) esibisce dei baffi e delle manie da vero supereroe ed è in questa direzione che il franchise vuole andare, replicando l’operazione avvenuta col duo Law/Downey jr per Sherlock Holmes.
Ovvio che i puristi di Agatha Christie, affezionati al Poirot di Peter Ustinov, storceranno il naso di fronte a questa riduzione di complessità, ma l’ecletticità di Branagh riesce a fare dell’investigatore belga qualcosa di diverso rispetto all’originale, ottenendo anche il prevedibile (e nobile) risultato di far riscoprire la giallista britannica alle nuove generazioni e, nel contempo, di contrastare l’onnivora serialità di Netflix.
CONCLUSIONI
“Assassinio sull’Orient Express” uscì inizialmente a puntate sul Saturday Evening Post nel 1933 ma fu scritto a Istanbul, nella stanza 441 del Pera Palas Hotel, che è oggi diventata un museo in onore di Agatha Christie. Appena fu pubblicato ebbe successo anche grazie all’alone d’esotismo che emanava e che era molto in voga in quegli anni.
Il film di Branagh ha un prologo troppo lungo rispetto all’eccessiva brevità dei flashback ed alcuni personaggi non valorizzano la cifra attoriale degli interpreti (su tutti Penelope Cruz) eppure, nonostante questi limiti e il maniacale primato delle immagini sul dialogo (che è però lo zeitgeist cinematografico), la pellicola funziona e il Poirot 2.0 coi suoi baffoni fumettistici e una capacità di commuoversi del tutto estranea al prototipo originale, riesce a coinvolgere trasversalmente il pubblico, anche aiutato da una colonna sonora patetica ed emotiva al punto giusto.