Dopo un prologo in cui l’intensa Amy Adams ben disegna le coordinate del suo personaggio (Louise Banks), una docente di linguistica che ha di recente perso la figlia per una rara forma di tumore, ci ritroviamo in un mondo in stato di choc a causa dell’atterraggio di dodici navicelle aliene a forma di guscio sospese a pochi metri da terra. Una di queste è nel Montana così la dottoressa Banks verrà raggiunta dall’esercito degli Stati Uniti nella persona del colonnello Weber (un sempre bravo Forest Whitaker) per capire se è all’altezza di decifrare il linguaggio dei nuovi arrivati e di scoprire se questi abbiano o meno intenzioni minacciose nei confronti del genere umano.
Dopo qualche più che comprensibile perplessità e considerato che è in possesso d’un nulla osta di sicurezza d’alto livello per una precedente consulenza governativa, Louise accetta entrando a far parte del team incaricato di interfacciarsi con gli alieni, team che include anche James Renner nei panni del fisico teorico Ian Donnelly. A seguito d’un primo impatto con due eptopodi, e cioè degli enormi polpi a sette zampe, avvenuto in condizioni di gravità rovesciata con una rotazione prospettica estremamente visionaria, Ian e Louise iniziano ad interagire con loro ribattezzandoli Abbot e Costello (i nostri Gianni e Pinotto che però nella traduzione italiana diventano Tom e Jerry) e portandoli ad emettere dei logogrammi circolari attraverso una sorta di inchiostro espulso dai tentacoli nella nebbia che li avvolge.
Il coraggio della dottoressa, dato dalla curiosità o dal disincanto, le permette di cominciare a costruire un vocabolario alieno poi condiviso con altre nazioni della terra ma quando una frase di equivoca interpretazione (“offrire armi”) allarma alcuni governi spingendo addirittura dei militari a piazzare un ordigno esplosivo nel guscio è chiaro che la missione della Banks assume un valore primario per scongiurare un conflitto interplanetario.
Essa si affannerà nel dimostrare che il vocabolo “armi” potrebbe invece significare “strumento” nelle intenzioni aliene e (coerentemente con l’adagio “traduttore-traditore”), riproporrà involontariamente e in chiave fantascientifica il dilemma di Nicole Kidman in “The Interpreter”:” ci sono nazioni che sono finite in guerra perché si sono mal interpretate”.
Grazie al ruolo in prima linea che riveste, Louise vive dei toccanti flashback per tutta la durata del contatto con gli eptopodi e quando Ian capirà che la chiave per decriptarne il linguaggio sta nel fattore Tempo lei realizzerà che i suoi non sono flashback ma flashforward. In una di queste allucinazioni si troverà a parlare col generale Shang, capo di stato cinese, diciotto mesi dopo e lui le svelerà indirettamente il segreto per evitare il conflitto.
Affianco al presente con una fotografia volutamente grigia resa a perfezione dall’ottimo Bradford Young (nelle intenzioni del regista la realtà doveva apparire come filtrata da un vetro bagnato di pioggia) i flashback, o flashforward, sono invece saturi per rimarcare l’intimismo di Louise alle prese con la figlia morente al punto che le inquadrature ricordano la cifra espressiva di Terence Malick.
La fantascienza di Villeneuve (non un’eccezione nel suo percorso creativo visto che sta girando il sequel di Blade Runner, “Blade Runner 2049”) è legata a doppio nodo a quel filone esistenzialista che da “Solaris” di Tarkovskij, passando attraverso il capolavoro di Ridley Scott, conduce a pellicole del calibro di “Contact” o “Interstellar” evitando l’abuso di effetti speciali e concentrandosi più sulla dimensione ontologica dell’altro da sé. Gli alieni divengono in tal senso uno specchio delle nostre paure incarnando metaforicamente quel nemico da combattere che quotidianamente valica frontiere non da turista ma da vagabondo (per dirla alla Bauman) e che a volte viene amplificato, se non creato, dagli stati nazionali per distogliere l’attenzione generale dai problemi di politica interna.
“Arrival”, tratto dalla short-story di Ted Chiang “storia della tua vita”, si fonda sulla teoria Sapir-Whorf relativa al linguaggio che, in estrema sintesi, ipotizza che il modo in cui si parla influenzi il modo in cui si pensa mentre i logogrammi alieni così suggestivi nella loro circolarità erano stati concepiti da Chiang come “delle fantasiose mantidi religiose, disegnate in corsivo e legate le une alle altre a formare un reticolo alla Escher”.
A Truffaut in “Incontri ravvicinati del terzo tipo” bastavano poche note per comunicare con gli alieni mentre la povera Amy Adams dovrà faticare non poco per venire a capo del linguaggio degli eptopodi che si fonda sui significati e non sul suono; l’affascinante assunto di base e cioè che una civiltà extraterrestre approdi sulla terra per farci dono d’un sistema di segni che ci permetta di prevedere il nostro futuro in cambio d’un presunto aiuto che dovremmo fornire loro fra tremila anni presenta alcune falle.
Intanto resta il paradosso temporale (“bootstrap paradox”) d’una protagonista che ricordando le frasi ascoltate nel futuro e modificando il presente in funzione di esse non si capisce come faccia poi a scegliere quello stesso futuro.
Ma a prescindere da ciò, se si tralascia l’interessante quesito antropologico se sia o meno possibile comunicare con una civiltà aliena e l’argomento viene appena sfiorato nel film, la critica più istintiva che viene in mente di fare è perché dovremmo considerare un “dono” avere lucide visioni del nostro futuro che meglio ci orientino nel presente quando tale capacità distrugge di fatto il libero arbitrio invece di tutelarlo?
Louise, grazie alla preveggenza donatale dagli eptopodi, compirà una scelta personale discutibile che la porterà ad una rottura col proprio compagno. La medesima facoltà le permetterà poi di impedire lo scatenarsi d’un disastroso conflitto ma il punto è che senza gli alieni tale conflitto si sarebbe verificato di certo visto che lei non avrebbe avuto la visione del dialogo col generale Shang ma è altrettanto vero che è stata proprio la discesa degli alieni ad aver posto le condizioni d’una possibile guerra.
Dunque gli eptopodi sono scesi sulla terra per farci dono del loro linguaggio circolare e della loro altrettanto circolare concezione del tempo, già sapendo che sarebbero stati fraintesi, per mettere alla prova il genere umano affinchè potesse collaborare alla risoluzione dell’enigma e poi, appurato che questo non avverrà, far salvare il mondo, grazie a una soffiata dal futuro, dall’intraprendente linguista che di fatto rinuncia al proprio libero arbitrio per la pace universale?
Ma può esistere una pace senza libero arbitrio e una libertà senza la possibilità di compiere il male?
Di fatto l’esistenza stessa d’una civiltà extraterrestre dotata d’un’intelligenza superiore rispetto al genere umano scardina i fondamenti delle religioni monoteiste e mette in discussione, oltre al concetto di trascendenza, anche l’antropocentrismo che sarcasticamente derideva Brecht in “vita di Galileo” quando chiedeva “perché Gesù ha posto la terra al centro dell’Universo? Ma perché la cattedra di Pietro possa essere al centro della terra”.
Se gli alieni possono prevedere il futuro significa che non concepiscono il libero arbitrio? E se così fosse avrebbe ancora senso parlare di religione o di divinità?
Arrival apre tutte queste porte ma non ne chiude nessuna come non si chiudono gli imperfetti cerchi degli eptopodi nella candida nebbia dell’incertezza metafisica.
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