Fu una lunga lotta, durata un anno. Dai diciotto ai diciannove anni cercai di convincere i miei genitori che era una cosa che si doveva fare.
"Non ti serve per niente", mi dicevano loro."Sì che mi serve", dicevo io."No, che non ti serve. Tanto c'è sempre qualcuno che può darti un passaggio. Ci siamo noi"."Se non lo faccio adesso non lo faccio più. Poi non avrò più tempo".
Così, mentre tutti gli altri allo scoccare del diciottesimo compleanno erano corsi ad iscriversi a scuola guida, io ci riuscii solo un anno dopo.
Le prime lezioncine base (pedale frizione, acceleratore, freno) non mi furono date da mio padre. E' sempre stato un maschio piuttosto indifferenti ai motori, per lui l'auto era (ed è ancora) un semplice mezzo di trasporto. L'estetica, la meccanica, la marca: niente, basta che sua comoda e che si guidi con semplicità.
Fu il mio fidanzatino dell'epoca che mi insegnò a partire, poi mettere la seconda, retro ecc. in un piazzale semi deserto. Lui aveva una A112 Abarth, un piccolo mostro, con la quale sfrecciavamo sulle tortuose stradine della collina torinese, sprezzanti del pericolo, come siamo stati tutti a vent'anni. Mentre la vettura sulla quale feci pratica in scuola guida, fu una Fiat Ritmo, che all'epoca era già una vettura delle più moderne.
Allora era molto più semplice prendere la patente. Un tot di lezioni teoriche, un tot di lezioni di pratica, poi l'esame con i quiz e di guida. Se avessi aspettato un po' di anni tutto sarebbe stato molto più complicato. Ed infatti questo fu uno degli argomenti che tiravo fuori con i miei genitori quando, tempo dopo, gli rinfacciavo di quanto ero stata furba nella mia scelta fortemente voluta di andare a scuola guida il prima possibile.
Io non ero né troppo brava né pessima. Sono passata subito, senza particolari difficoltà, ma c'era gente che dava l'esame anche due o tre volte. Si trattava prevalentemente di ragazze (o donne) che le vedevi subito dall’espressione in volto quanto erano imbranate e negate per la guida. Non era colpa loro, ovvio, doveva trattarsi piuttosto di una questione genetica, e mi facevano quasi pena. Gli istruttori le trattavano malissimo, non avevano pietà. Così come non ne avevano per i ragazzotti che, il giorno dopo aver compiuto diciotto anni, si iscrivevano e davano l'esame da privatisti. Sicurissimi di sé, venivano regolarmente bocciati già a teoria, che ovviamente sottovalutavano, al contrario di noi ragazze che invece puntavamo tutto sui quiz.
Il giorno dell'esame di pratica è uno di quelli che si ricordano poi per tutta la vita. Ero abbastanza agitata perché non sapevo fare i parcheggi. L'istruttore me ne aveva fatti tentare due o tre il giorno prima senza troppe spiegazioni, dopo tutte le prove, certamente più impegnative, di guida nel traffico cittadino. Difatti posteggiare è sempre stato il mio punto debole. Ogni volta spero di trovare un meraviglioso parcheggio a pettine, che ti ci infili e non ci pensi più. Per il resto ero abbastanza tranquilla.
Il sedicente “ingegnere” si sedette, come da prassi, su sedile posteriore. Sembrava un tipo calmo, equilibrato. Certo un po' di apprensione ce l'avevo, si trattava pur sempre di un esame, e mi sarebbe rincresciuto parecchio doverlo ripetere. Ne sarebbe andato della mia reputazione, finire nel branco delle imbranate.
Iniziò la guida. “Vada di qui, svolti di là, attenta allo specchietto retrovisore” le solite cose. Ma da subito (forse si sentiva sicuro della mia guida), si alienò dal posto e dal momento che stava vivendo e si mise a raccontare dei suoi problemi sentimentali con una tizia. Non ricordo i particolari, ma mi sembra che lei non fosse molto convinta di stare con lui, che ne riportava i dialoghi e ne chiedeva agli altri occupanti della macchina una libera interpretazione: “Insomma, lei mi ha detto 'sta cosa, quindi, voleva dire che, insomma, potrebbe starci, sì? O no? Lei che è una donna intende questo, capisce questo. Giusto?”. E che gli dovevo rispondere, io povera tapina super concentrata con le mani arpionate sul volante, già con la mente sprofondata nell'incubo del parcheggio, se non dargli corda e concordare su tutta la linea con l'”ingegnere” e le sue strategie amorose? In altra sede gli avrei risposto che se fossi stata al posto della tizia in questione non avrei sprecato neppure cinque minuti con uno come lui, ma si stava avvicinando la fase finale e più temuta di tutto l'esame, il posteggio, e non potevo alienarmi le sue simpatie.
Alla fine mi fece manovrare fra due auto dove c'era spazio per un tir in una straducola semideserta, e fui promossa. Ma i parcheggi continuano ad essere il mio incubo.