Per l’8 novembre l’Istituto storico della resistenza per Cuneo e provincia organizza un convegno sull’eccidio di Aigues Mortes a 120 anni dalla sua consumazione.
Vi interverranno Enzo Barnabà, autore di Morte agli italiani. Il massacro di Aigues-Mortes, 1893, e Gérard Noiriel (professore all'Ecole Normale Supérieure) di cui è stato da poco tradotto in italiano il saggio Le Massacre des Italiens (II massacro degli italiani. Aigues-Mortes, 1983. Quando il lavoro lo rubavamo noi), una sistematica ricerca negli archivi nazionali e dipartimentali, in cui storia dal basso e storia dall’alto si intrecciano nel ricostruire «l’esempio più truce di xenofobia operaia in qualsiasi storia dell’immigrazione».
Per la verità l’anniversario è caduto in agosto, il mese di solito usato nelle saline del Mediterraneo per iniziare la raccolta del minerale, quando è massima l’evaporazione dell’acqua. Benché si trattasse di un lavoro durissimo come può essere il carico e trasporto di quintali di sale, in mezzo all’arsura e senza alcuna organizzazione di accoglienza, ogni anno al momento della cosiddetta raccolta ad Aigues-Mortes affluivano migliaia di lavoratori richiamati dalla speranza di trovare un’occupazione stagionale, capace di fruttare con il cottimo anche 15 franchi al giorno (in Italia allora gli stipendi medi degli operai superavano a malapena le due lire giornaliere, in Francia, tenuto conto della parità lira-franco, erano due, tre volte superiori, comunque non paragonabili a quelli pagati dalla Compagnia in cambio dell’asprezza e dei rischi del lavoro in salina). L’afflusso in massa della manodopera era superiore alla richiesta, dunque alimentava un serbatoio occupazionale di riserva e costituiva uno strumento per contrattare al ribasso il costo del lavoro. Potevano affluire fino a 2000 stagionali a fronte dei 1200-1300 utilizzati, con inevitabili difficoltà d’accoglienza e sicurezza. Insorgevano problemi sanitari per l’assenza di acque sorgive e il difficile deflusso delle acque fognarie. La vicinanza degli stagni rendeva probabile l’infezione malarica. I migranti erano uomini, per lo più soli, anche se non mancava chi si portava dietro moglie e figli, giovani e quindi sollevavano timori per la sicurezza pubblica e la protezione delle donne. In quelle settimane tre gruppi sociali venivano messi di fronte ad una condizione di bestiale concorrenza tra loro: gli stagionali francesi originari dalle zone montuose delle Cevennes, gli italiani, mezzo migliaio in quella fatidica estate del 1893, per lo più piemontesi (ma anche lombardi, veneti e toscani), ed infine i “trimards” (lavoratori nomadi francesi, figure limite fra sottooccupazione e delinquenza). Questi ultimi ebbero un ruolo centrale nelle violenze: tra i rinviati a giudizio, infatti, 18 su 37 erano senza fissa dimora e tra questi 11 su 17 furono accusati dei reati più gravi, anche se poi il tribunale di Angoulème assolse tutti gli imputati.
La caccia agli stagionali italiani impiegati in quella mansione, rei a seconda dei pregiudizi di “rubare il lavoro” ai francesi, di costare di meno o produrre di più, si scatenò il 17 agosto 1893: oltre 500 francesi inferociti attaccarono le capanne che ospitavano un centinaio di italiani. Al grido di “A mort les Italiens! Vive l’anarchie! Vive la France et mort à l’Italie! Hors d’ici les ours Italiens!”, la folla, armata di pietre, badili e bastoni diede l’assalto agli improvvisati rifugi dei migranti, scoperchiando il tetto e devastando ogni cosa. Un operaio che si trovava a letto con la febbre venne massacrato a colpi di mattoni.
Intervenne la forza pubblica (18 gendarmi) che fece sgombrare i capanni e intimò agli italiani di recarsi alla stazione ferroviaria per non provocare l’ira dei manifestanti; tra gli insulti, gli scherni e le bastonate gli italiani iniziarono ad allontanarsi, ma ben presto vennero accerchiati dalla turba che sventolava la bandiera tricolore della Repubblica Francese e quella rossa. Risuonarono alcuni colpi d’arma da fuoco sparati dai gendarmi e dai manifestanti: l’operaio Secondo Porta di Roatto d’Asti, colpito da una bastonata, cadde bocconi, esanime. Un francese che aveva percosso il cavallo d’un gendarme venne freddato sul colpo: il cadavere fu portato in corteo e anche di questa morte si accusarono “les italiens”. Una ventina di piemontesi, gettatisi nella melma dell’Etang des Pesquières, vi rimasero bloccati sotto un fitto lancio di sassi che partiva dagli argini: solo tale Antonio Cappellini riparò a Marsiglia.
Il bilancio ufficiale parlò di 8 morti e una cinquantina di feriti. In Italia il rapporto presentato alla Camera dei deputati segnalava 8 morti, 14 dispersi e 99 feriti. Negli stagni erano finiti non solo quelli che si erano gettati per sfuggire alla folla imbestialita, ma anche molti cadaveri di ammazzati che si pensava così di far sparire.
Ecco perché accanto alle 8 vittime ufficiali delle autorità francesi (ma quasi tutti i dispersi dovrebbero essere considerati come morti) troviamo la stima di una trentina di vittime dell’inviato della “Gazzetta Piemontese” (odierna “Stampa”) o addirittura di una cinquantina secondo “The Times” di Londra.
Il comportamento delle autorità francesi, a cominciare da quella del sindaco di Aigues per arrivare fino ai giudici di Angoulème, fu di vergognosa condiscendenza, in nome di un nazionalismo che in quegli anni si nutriva dei contrasti diplomatici fra la Francia, grande potenza coloniale, e l’Italietta di Crispi, che cercava di competere con le sue (dis)avventure africane e gli accordi innaturali con la Germania e l’Impero asburgico . Per la verità in quei mesi era primo ministro Giovanni Giolitti, il quale cercò di calmare i toni, ma il suo prestigio era pesantemente compromesso dallo scandalo della Banca Romana e di lì a poco egli avrebbe dovuto lasciare il posto proprio a Crispi. Manifestazioni antifrancesi si svolsero a Sanremo, Savona e Genova all’arrivo degli scampati all’eccidio, che erano stati caricati dai gendarmi francesi sui treni o accompagnati fino alla frontiera. Particolarmente gravi furono i disordini che scoppiarono in grandi città come Roma o Napoli: nel primo caso si tentò l’assalto a villa Farnese, sede dell’ambasciata transalpina, nel secondo caso le manifestazioni si intrecciarono con uno sciopero dei cocchieri e all’agitazione degli anarchici, contrari alla gestione nazionalistica della protesta. In effetti, se guardiamo ai cortei che si svolsero nella nostra provincia a Cuneo e Saluzzo fra il 22 e il 23 agosto, i manifestanti non erano proletari o disoccupati, bensì giovani di buona famiglia: poche decine in via Nizza a Cuneo, disperse da polizia e militari, imponente il corteo di Saluzzo, dove 500 persone, prima al seguito della fanfara del reggimento di cavalleria, poi della Banda civica fecero eseguire la Marcia Reale, gridando per tutto il tragitto fra la caserma e la stazione tramviaria: “Viva il Re! Viva Sédan! Abbasso i francesi!”. La protesta era cavalcata dal consigliere provinciale filocrispino Carlo Antonio Pivano, che rafforzava la sua popolarità, in modo da poter prossimamente ribaltare la sconfitta patita l’anno prima nel collegio parlamentare contro il giolittiano Carlo Buttini.
Le manifestazioni di Cuneo e Saluzzo non erano casuali.
Se la Francia di fine Ottocento era una paese in impetuoso sviluppo produttivo che coinvolgeva tanto l’industria quanto l’agricoltura (il sale cominciava a servire non solo più per gli usi alimentari, ma anche all’industria chimica), l’Italia era fra le grandi nazioni europee la più povera.
Le condizioni di vita nelle campagne (e Cuneo era una provincia agricola) erano precarie; per le famiglie numerose, costrette per lo più ai contratti di schiavenza, l’esubero di manodopera e la contemporanea presenza di troppe persone da sfamare costringeva a vagare da un paese all’altro come avventizi o “servi di campagna” al servizio dei contadini più ricchi.
Grano e bestiame, deprezzati dall’arrivo delle derrate agricole degli Stati Uniti e dell’Argentina, mettevano sul lastrico i piccoli proprietari. La viticoltura attraversava anch’essa un periodo di crisi, con la rapida diffusione della fillossera. Le esportazioni di vino in Francia erano crollate a causa dell’insensata guerra doganale voluta da Crispi.
Unico rimedio ad una situazione disperata era dunque l’espatrio verso le Americhe o verso la Francia, sbocco da secoli di una tradizionale emigrazione stagionale o “temporanea”.
400 mila italiani partono per la Francia nell’ultimo quarto del XIX secolo. Il 28% è costituito da piemontesi. Le due province che danno il maggior contributo di braccia sono Torino e Cuneo.
Nel 1893 l’anno della strage secondo l’Ufficio di statistica italiano lasciano la penisola 17.354 cuneesi, di cui 5.414 classificati come emigranti veri e propri, gli altri 11.940 come emigranti «temporanei». Gli stagionali della Francia in gran parte coincidono con questa categoria. Non tutte le parti della provincia sono ugualmente investite dall’esodo: i circondari di Alba, Bra e le Langhe e Mondovì sono appena sfiorati. Qui lascia la propria terra un abitante su 238-259. Da Cuneo invece varca la frontiera uno su 17, dal saluzzese uno su 30. Negli anni successivi il circondario di Saluzzo, che pure ha al suo interno una città industriale come Savigliano, tenderà ad avvicinarsi a quello di Cuneo, anzi a superarlo nell’emorragia di braccia. Nel solo 1893, l’anno della tragedia, ci sono paesi come Tenda che conta 672 emigranti su 1.680 abitanti, Vinadio (637 su 3.175), Sampeyre (347 su 5762), Frassino (125 su 1789), Paesana 636 su 7400, Gambasca con 66 espatriati, divisi a metà fra definitivi e temporanei, su 889 cittadini o Sanfront con 27 e 205 rispettivamente su 4.887.
Ed ecco allora nel tragico bilancio del massacro di Aigues Mortes trovare fra gli 8 morti dell’elenco minimo un Giuseppe Merlo, 29 anni, nato a Centallo, e un Giovanni Bonetto che successivamente si scoprirà proveniente da Frassino; fra i 14 dispersi ufficiali, Filippo Castagno, 47 anni, di Villafalletto, Chiaffredo Mainero (Marino, Marini ?) di Moretta; fra gli altri cinque nomi di dispersi riportati dall’agenzia Stefani e dai giornali italiani Matteo Forno, da Gambasca e Stefano Miretti da Sanfront (questi riuscì ad allontanarsi da Aigues, tanto che sette anni dopo venne ritrovato cadavere in un fiume a Montbovon in Svizzera). Fra i 18 feriti ricoverati all'ospedale di Aigues-Mortes, tolti due ridotti così male da non poter aprire bocca, il Console italiano Durando raccolse le generalità di: Angelo Camerano, 21 anni, celibe, di Borgo San Dalmazzo; Antonio Capello, ventiduenne, celibe, di Tenda; Giuseppe Bermelli, 27 anni, celibe, di Villanova Mondovì; Giovanni Cravero, 22 anni, celibe, di Saluzzo; Giovanni Giordano, 24 anni, celibe, di Vernante (l’unico italiano che verrà arrestato e processato con l’accusa piuttosto pretestuosa di aver nei giorni precedenti provocato i lavoratori francesi); Antonio Faggio, celibe, di Saluzzo; Andrea Marino, 18 anni, celibe, di Vinadio.
Un’ottavo piemontese di 33 anni, Giovanni Bernardelli, risultava residente a Nizza, ma non è improbabile che provenisse dalla nostra provincia.
Fra i sei ricoverati all'ospedale di Marsiglia Bartolomeo Vaccina (o Vaccino) era originario di Beinette.
Questo elenco di nomi e località fa comprendere come il prossimo convegno sui fatti di Aigues Mortes non sarà un appuntamento accademico, ma un’occasione per capire le dinamiche che muovono e accompagano i flussi migratori, riscoprendo una pagina di storia rimossa dalla memoria dei nostri paesi. Se la Francia ha messo a tacere una vicenda poco onorevole per il paese dei «droits de l’homme» (una cerimonia commemorativa si è svolta quest’anno ad Aigues per la prima volta), anche nella nostra provincia, ad eccezione di una lapide posta al cimitero di Centallo, il sacrificio dei nostri connazionali e compaesani si è perso nelle nebbie dell’oblio. In questi anni molti comuni hanno dedicato lapidi o strade alle vittime delle foibe o ai caduti di Nassiriya, tutti lutti che hanno toccato la nazione nella sua generalità, ma non direttamente la nostra provincia. E’ giunta l’ora di rimediare alla dimenticanza.