Poteva essere il 1976 o il 1977, non ricordo di preciso, ma erano i primi anni che frequentavo il liceo, a Torino. Allora c'erano abbonamenti per la stagione teatrale destinati agli studenti, che definire convenienti è dir poco. Uno degli spettacoli andato in scena era “Il giardino dei ciliegi”, di Anton Cechov, con la regia di Giorgio Strehler, e con attori straordinari: Valentina Cortese, Monica Guerritore, Giulia Lazzarini, Renato De Carmine, Franco Graziosi e, nel ruolo di Firs, il vecchio maggiordomo, Renzo Ricci, nel suo ultimo ruolo. Stava in scena per pochi momenti e recitava poche battute, il suo ruolo era marginale, ma era Renzo Ricci, uno dei grandi vecchi del teatro italiano.
Mi ritengo fortunata perché ho potuto assistere alle ultime interpretazioni di grandi attori che le persone più giovani non conoscono se non per averne sentito vagheggiare il nome. Nella seconda metà degli settanta, infatti, calcavano le scene personaggi come Romolo Valli, Salvo Randone, Gianni Santuccio, Edmonda Aldini, Giulio Bosetti, Tino Buazzelli, Rossella Falk, Franco Parenti, Eros Pagni, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Anna Proclemer, solo per citarne alcuni. Quasi tutti ammirati dal vivo, a teatro.
Ma la cosa straordinaria è che alcuni di loro è ancora vispo, vegeto e recitante ancora oggi, quando ormai per me gli anni del liceo appartengono ad un tempo remotissimo. E con una lucidità da far invidia a un cinquantenne qualunque. Parlo di attori come Giorgio Albertazzi (classe 1923), o di Gianrico Tedeschi (classe 1920) visto nel recente (bel) film di Roberto Andò “Viva la libertà”. Sarà perché recitare fa bene al cervello, ma notoriamente i grandi vecchi restano vivaci e giovanili fino all'ultimo. E tanti di loro oltrepassano, in ottima forma, la soglia invidiabile degli ottant'anni.
Sarà che inizio ad essere anche io un po' “vecchietta” e, come le persone di una certa età, tendo a idealizzare, forse oltre il dovuto, tutto ciò che fa parte dei tempi passati. E dunque anche gli attori, che appaiono, ai miei occhi e al mio cervello, diversi (e non sto dicendo, sia chiaro, migliori) dagli interpreti più giovani. Certo è un altro stile recitativo, e forse quello antico era più enfatico e distaccato. Attori il cui livello di recitazione mi pareva irraggiungibile, che quando li vedevo mi mettevano i brividi (forse anche perché ero un'adolescente emotiva), mi trasmettevano sensazioni ed impressione viva che non ho più provato con tali intensità.
Ripeto, non voglio dire che gli attori di oggi siano meno bravi di quelli di un tempo; uno per tutti Toni Servillo, attualissimo, ma con una professionalità ed un rigore che fa da rimando ai “mostri sacri” citati prima come il grande Eduardo. Semplicemente, il loro modo di recitare è diverso, moderno, per l'appunto, ma non di seconda categoria. Eppure se il mio cervello deve evocare lo stereotipo di attore, quello che emerge, appartiene sempre e soltanto alla memoria di venti, trent'anni or sono.
Come quando, un pomeriggio, al botteghino per la prenotazione dei biglietti per lo spettacolo I giganti della montagna del Teatro Stabile di Torino, Gianni Agus tenne aperta la porta per farmi entrare - un piccolo gesto di cortesia accompagnato dal suo sorriso contagioso che tutti noi conosciamo, e che ho vivido nella mente ancora oggi. O quando mi imbattei in Raf Vallone, un gigante della recitazione conosciuto in tutto il mondo, mentre stava aspettando qualcuno (me?!) davanti all'ingresso del Teatro Regio.